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Perdere il lavoro non è un grave danno alla persona. Lo dice la Cassazione

Un imprenditore del cuneese non aveva pagato l’Iva per salvare l’azienda e quindi i lavoratori, ai quali avevano continuato a corrispondere gli stipendi, invocando il cosiddetto “stato di necessità”, che in base al codice esclude la punibilità di chi ha commesso un fatto per “salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona”. Non è bastato.
A cura di B. C.
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Perdere il lavoro non costituisce un “grave danno alla persona” per quel che riguarda il codice penale: ciò vuol dire che un imprenditore che decide di pagare le tasse per assicurare lo stipendio ai propri dipendenti e “salvarli dalla disoccupazione” deve essere condannato lo stesso. Lo stabilisce la Cassazione, in una sentenza che ha confermato i quattro mesi di reclusione inflitti dalla Corte d’appello di Torino a un impresario cuneese. L’uomo era finito alla sbarra per omesso versamento dell'Iva (con riguardo all'anno di imposta 2006) per quasi 258 mila euro. Davanti ai giudici si era giustificato adducendo che la sua società un'impresa di Fossano, specializzata nella costruzione di prefabbricati, stava attraverso un grave momento di crisi economica. Lui però aveva preferito continuare nel pagamento degli stipendi almeno per un anno, evitando di pagare la tassa sopracitata.

L'imputato, dunque, aveva invocato il cosiddetto "stato di necessità", che in base al codice esclude la punibilità di chi ha commesso un fatto per "salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona". Ma i giudici della Corte d'appello di Torino prima, e quelli della Suprema Corte gli hanno dato torto e lo hanno condannato a quattro mesi di reclusione. "Pur essendo fuori discussione – scrivono i giudici – che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito, e che il lavoro contribuisce alla formazione e allo sviluppo della persona umana, deve escludersi tuttavia che la sua perdita costituisca, in quanto tale, un grave danno alla persona”.

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