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Perché il numero delle unioni civili non vuol dire nulla, ciò che conta è che ora sia possibile

Un articolo di Repubblica, a firma di Liana Milella, sostiene che le unioni civili, a un anno dalla loro entrata in vigore, siano un flop, causa il numero di richieste considerato troppo basso rispetto alle aspettative. Ma è normale, un nuovo diritto deve sedimentarsi nella cultura della società prima di essere accettato e considerato una normale prassi. Successe anche negli anni ’70 con il divorzio.
A cura di Charlotte Matteini
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Un articolo pubblicato oggi dal quotidiano La Repubblica, a firma della cronista Liana Milella, ha messo in dubbio l'utilità della legge sulle unioni civili, sostenendo che, visti i numeri considerati troppo esigui, a un anno di distanza dalla sua entrata in vigore si sarebbe rivelata un vero e proprio flop. L'analisi di Milella ha accesso un furioso dibattito sui social network, dove molti lettori e utenti indignati hanno sottolineato come non si possa parlare di flop analizzando dei meri dati quando si parla di diritti. E in effetti, a una prima lettura – ma anche a una più approfondita – l'analisi si rivela abbastanza miope, basata sulla contrapposizione delle migliaia di manifestanti in piazza e degli scarsi riscontri in termini di celebrazioni.

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Da Matteo Renzi a Ivan Scalfarotto, sono decine i politici che si sono scagliati contro la lettura fornita da Repubblica e man mano che il polverone social cominciava ad alzarsi, il quotidiano ha deciso di fare una parziale retromarcia modificando il titolo dell'articolo e il titolo in home page. Il contenuto del pezzo, però, non ha subito modifiche ed è rimasto tale e quale.

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In otto mesi 2.802 unioni civili. In tutta Italia. Erano 2.433 a fine dicembre. Se ne sono aggiunte 369 tra gennaio e fine marzo. Non c’è che dire: decisamente un flop. Che non può che sorprendere, vista la battaglia durissima e lo scontro politico per arrivare alla legge. Quella sulle unioni civili è stata senza alcun dubbio la legge politicamente più divisiva della legislatura. La Camera, con la fiducia, ha detto il sì definitivo l’11 maggio 2016. A pochi giorni dal suo primo “compleanno” Repubblica ne racconta l’impatto con dati che diventeranno ufficiali tra pochi giorni.

Proprio così. Nelle piazze, prima della legge, c’erano migliaia di manifestanti — uomini e donne gay che rivendicavano il loro diritto di unirsi in un “matrimonio” civile — ma ora le cifre forniscono un quadro decisamente sottodimensionato. Sul quale non hanno inciso i numerosi decreti legislativi che, via via, da luglio 2016 fino all’11 febbraio 2017 quando è stato varato l’ultimo, hanno messo definitivamente a regime le nuove unioni rendendole compatibili con codici e altre leggi.

Milella prosegue sostenendo che in Sud Italia il flop sarebbe ancora più evidente, con poche centinaia di unioni civili celebrate: "Solo 292 unioni sono state celebrate in Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna. E, a scorrere le tabelle, colpisce il fatto che in Molise ci sia stata una sola unione. Che ve ne siano state soltanto due in Basilicata, una a Potenza e una a Matera. Che in Calabria si arrivi solo a otto. Le Regioni del Sud che tengono in alto i numeri sono solo la Campania con 105 unioni e la Sicilia con 75. Ma va detto che anche in Valle D’Aosta le unioni sono state solo sei. Adesso dovranno essere gli studiosi a spiegare se nel Sud non ci sono proprio persone dello stesso sesso che vogliono unirsi ufficialmente, oppure se le coppie omosessuali ancora si nascondono, magari perché rendere ufficiale il rapporto, e quindi l’unione, potrebbe avere conseguenze sul lavoro e la vita sociale".

L'analisi si conclude, infine, con una domanda, che mette in luce quello che secondo Milella potrebbe essere il vero problema che ha generato il flop delle unioni civili: la mancanza di una tutela legale per i figli delle coppie omosessuali, ovvero della famigerata "stepchild adoption" stralciata in corso d'opera tra le proteste della sinistra italiana: "C’è da chiedersi che cosa sarebbe accaduto se le coppie avessero potuto regolarizzare grazie alla legge anche gli eventuali figli dei partner o addirittura adottarne. Ma questa sarebbe un’altra legge e un’altra storia".

Per quale motivo l'analisi di Milella è miope? È presto detto: quando un nuovo diritto si affaccia nell'ordinamento di qualsiasi Paese è piuttosto normale che in prima battuta si rilevi una sorta di "fase di stallo", se così vogliamo definirla, per poi arrivare alla sedimentazione della nuova prassi nella cultura di qualsiasi tipo di società e alla normalizzazione e standardizzazione dei processi. Prendiamo ad esempio un altro dei grandi diritti "divisivi" che all'epoca, parliamo degli anni '70, venne considerato e bollato da buona parte della classe politica di allora, Democrazia cristiana in testa, non solo inutile, ma persino pericoloso e potenzialmente in grado di distruggere "la famiglia tradizionale": il divorzio.

Per quanto non sia esattamente divertente dover ricorrere allo scioglimento del matrimonio, sareste in grado di immaginarvi oggi, ma anche 10 o 20 anni fa, l'esistenza di un Paese in cui non sia possibile divorziare? Credo francamente che la risposta sia no. Ebbene, dopo l'approvazione della legge sul divorzio, introdotto il 1 dicembre del 1970, esattamente come successo per le unioni civili, non ci fu affatto la corsa al divorzio. Il boom di richieste avvenne solo durante il primo anno dall'entrata in vigore della legge (55 mila) poiché coppie, separate di fatto già da anni, ricorsero al divorzio per regolarizzare finalmente il proprio stato civile. Già nel 1972 le richieste furono meno della metà (21mila). Qualcuno parlò di flop della legge?

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Nei primi 10 anni dall'entrata in vigore della legge sul divorzio, si è poi assistito a una graduale stabilizzazione, come dimostrano le tavole elaborate dall'Istituto nazionale di statistica, nel 1975, per poi descrivere un crescendo ininterrotto fino ad arrivare ai picchi dei giorni nostri. Nel 2005 i divorzi furono oltre 47mila, 54mila nel 2008, ovvero più del doppio degli iniziali 17.000 rilevati nel 1971. Come spiega lo stesso istituto nazionale di statistica, l'andamento in crescendo del divorzio è dovuto semplicemente al fatto che con il passare del tempo, la pratica inizialmente guardata dalla popolazione italiana in maniera scettica, perché sconosciuta ancora nei fatti e negli effetti, è poi divenuta assolutamente normale e ha iniziato a essere considerata un vero e proprio diritto a cui ricorrere in caso di necessità. Come avviene oggi per le unioni civili, poi, anche allora il Sud "respinse" l'idea del divorzio e rispetto al resto dell'Italia ricorse molto meno alla richiesta di scioglimento del matrimonio.

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Abbandonando però l'analisi dei freddi numeri, la descrizione del "flop delle unioni civili" non è solo statisticamente viziata, ma lo è soprattutto eticamente: non è infatti ammissibile pensare che un diritto, diritto che peraltro è stato "concesso" a una cosiddetta minoranza della popolazione, possa essere valutato "un tanto al chilo" o che si possa stabilirne la reale importanza facendo i conti con il pallottoliere. Anche esistessero due sole persone nel Belpaese desiderose di celebrare un'unione civile, dovrebbero avere il diritto di farlo. Esattamente come fu per il divorzio, sarebbe impensabile oggi sostenere che, in quanto il nuovo diritto nei primi 10 anni non riscosse il successo preventivato infaustamente dalla Democrazia Cristiana, la sua legalizzazione non fosse un necessaria.

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Milanese, classe 1987, da sempre appassionata di politica. Il mio morboso interesse per la materia affonda le sue radici nel lontano 1993, in piena Tangentopoli, grazie a (o per colpa di) mio padre, che al posto di farmi vedere i cartoni animati, mi iniziò al magico mondo delle meraviglie costringendomi a seguire estenuanti maratone politiche. Dopo un'adolescenza turbolenta da pasionaria di sinistra, a 19 anni circa ho cominciato a mettere in discussione le mie idee e con il tempo sono diventata una liberale, liberista e libertaria convinta.
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