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Per la ripresa non basterà toccare l’articolo 18

Le riforme del mercato del lavoro appaiono ineluttabili ma se non si offre una prospettiva a medio termine si rischia di non ottenere maggiori investimenti nè un rilancio della domanda di lavoro.
A cura di Luca Spoldi
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L’anno sta per finire e ormai lo sguardo di autorità e mercati è già rivolto al prossimo esercizio, che non si presenta per nulla facile: secondo Mario Draghi, numero uno della Banca centrale europea (Bce) che oggi ha tenuto un’audizione davanti al Parlamento europeo, il crescere delle tensioni dei mercati “continua a frenare l’attività economica nell’area dell’euro”, le cui prospettive restano così “soggette ad un’elevata incertezza e a considerevoli rischi al ribasso”. Draghi, beato lui, non ha “dubbi sull’irreversibilità dell’euro”, ma nota che “molti soprattutto fuori dall’Eurozona” (il riferimento è indirizzato alle agenzie di rating al cui giudizio secondo il banchiere sarebbe opportuno ridurre l’esigenza di ricorrere) “continuano a delineare scenari catastrofici”. Non i vertici della Bce, che continuano “a ripetere che no, non succederà mai”.

Per Draghi l’economia del vecchio continente rischia dunque una frenata dalla quale dovrebbe poi riprendersi gradualmente solo l’anno venturo, il che rilancia la discussione sulle misure necessarie a favorire il rilancio dell’economia italiana. Un’economia da un lato troppo poco flessibile, dicono alcuni, a causa di un costo del lavoro troppo pesante per reggere la concorrenza delle aziende cinesi (della Cina e d’Italia), indiane, coreane e via discorrendo, dall’altra troppo sperequata tra chi gode di tutele quando non privilegi e chi invece non riesce neppure ad accedere a un’opportunità di lavoro o di fare impresa. Così è sembrato naturale che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, all’ulteriore irrigidimento di parte del sindacato su posizioni “classiche” abbia invece dichiarato che l’articolo 18 non deve essere considerato un “totem”, come altrettanto naturale, purtroppo, sono sembrate le reazioni dei sindacati che alla “provocazione” del ministro hanno reagito con l’ennesima levata di scudi.

Ci sono da fare almeno un paio di considerazioni al riguardo: la prima attiene all’efficacia di un eventuale scambio tra minori tutele (o “flessibili” che dir si voglia, magari sull’esempio dei paesi del Nord Europa che certo non possono dirsi “incivili” ma tali tutele flessibili adottano da anni) per i lavoratori dipendenti delle grandi aziende e un più agevole inserimento nel mercato del lavoro dei giovani che al momento restano precari passando da un contratto a tempo determinato a un altro (con conseguenze fortemente negative oltre che sul loro reddito presente anche sul loro reddito futuro, visto che questo significa anche una minore capacità di accumulo di contributi previdenziali). In molti hanno già fatto notare che lo scambio non sembra molto equo visto che si toglierebbero tutele (o privilegi che siano) a una categoria di lavoratori senza alcuna certezza di offrire un beneficio ad un’altra categoria (i giovani precari sono quasi sempre legati ad aziende private di piccole dimensioni per le quali non vale comunque l’articolo 18, oppure alla pubblica amministrazione, dove il percorso d’ingresso è spesso legato a decisioni politiche, così come il successivo avanzamento di carriera, più che a valutazioni relative alla competenza dei singoli lavoratori e alla necessità di dotarsi di maggiori o minori risorse umane).

La seconda è di ordine più generale: Draghi con la Bce offre liquidità alle banche per agevolarne il “funding”, dunque aumenta l’offerta di moneta, ma non è detto riesca a far crescere la domanda di moneta né il suo utilizzo (nella misura in cui molte banche preferiscono ridurre la propria attività e liquidare gli asset a rischio anziché contrarre debiti sia pure nei confronti della Bce per mantenere o incrementare l’attività e/o il quantitativo di titoli di stato detenuti). Allo stesso modo il governo italiano può offrire una riduzione del costo del lavoro (agendo sui vincoli e sulle tutele sindacali più che riducendo, come molti chiedono da tempo, il cuneo fiscale) ma non è detto possa aumentare la domanda di lavoro, che specialmente se si vuole portare il paese a competere alla pari con le altre economie avanzate potrà salire solo a seguito di un rilevante aumento degli investimenti, in primis quelli destinati all’innovazione di prodotti e processi (nonché alla formazione “permanente” del personale).

Non vorrei, insomma, che mosse tatticamente ineluttabili a causa dei continui rinvii di qualsiasi aggiornamento dell’apparato normativo, ideologico e organizzativo dell’economia italiana finissero col circoscrivere l’orizzonte del governo Monti, che dunque rischierebbe di fare un lavoro assai parziale del quale sarebbe legittimo chiedersi chi dovrà subire gli oneri e chi potrà godere maggiormente i benefici. Che le riforme siano da fare non è possibile dubitarlo, che questa possa essere l’agenda migliore come tempistica e priorità delle singole misure è invece lecito chiederselo. Resta immutata la necessità sul piano interno di iniziare a guardare al futuro non solo immediato e sul piano internazionale riappropriarsi degli spazi che competono all’Italia e che l’insipienza dei precedenti governi ci ha fatto perdere. Il rapido tramonto della “Berlusconomics” è un segnale confortante, ma non potrà né dovrà essere l’unico, nè il più importante: a che servono nuove regole se poi non si fa in modo che tutti le rispettano tollerando di fatto l'esistenza di un sommerso (come hanno testimoniato in questi anni, ad esempio, infinite puntate della trasmissione Rai Report) sempre più vasto e totalmente privo di regole e tutele di sorte tanto per i lavoratori quanto per gli imprenditori coinvolti?

In fondo se è vero che, come sostengono gli economisti di Credit Suisse, l’Unione europea vede da anni crescere le differenze al suo interno (via via che si espande) e non può rispondere alle importanti sfide del futuro (prima fra tutte quella legata all’invecchiamento della sua popolazione e dunque ai problemi sia in termini previdenziali sia di futura carenza di manodopera che questo comporta) con “una sola ricetta buona per tutti”, ma deve anzi cercare di modulare risposte molteplici pur all’interno di comune linee guida finalizzate al raggiungimento di un obiettivo comunitario, la cosa è vera anche nel caso dell’Italia, la quale non necessariamente deve adottare una “via tedesca” o “inglese” o “francese” per superare la crisi, quanto essere in grado di capire quali siano i propri specifici punti di forza e debolezza da sfruttare o da evitare e su questa base elaborare una propria strategia vincente che tuteli in primis gli interessi dell’Italia tutta, sia pure in ottica europea.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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