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Per i morti di Reggio Emilia: il tragico luglio di cinquantacinque anni fa

Nell’estate del 1960 l’Italia pare bloccata nella palude centrista, in attesa di una possibile svolta a sinistra. Fernando Tambroni, pur essendo favorevole all’ingresso del Psi nell’area di Governo, si ritrova a gestire una maggioranza con il Movimento sociale che provocherà, a partire dai “fatti” di Genova, una scia di sangue difficile da dimenticare.
A cura di Marcello Ravveduto
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Fernando Tambroni.
Fernando Tambroni.

«Compagno cittadino fratello partigiano/ teniamoci per mano in questi giorni tristi/ di nuovo a Reggio Emilia di nuovo là in Sicilia/ son morti dei compagni per colpa dei fascisti […] A diciannove anni è morto Ovidio Franchi/ per quelli che son stanchi o sono ancora incerti/ Lauro Farioli è morto per riparare il torto/ di chi si è già scordato di Duccio Galimberti/ son morti sui vent’anni per il nostro domani/ son morti come vecchi partigiani/ Marino Serri è morto, è morto Afro Tondelli/ ma gli occhi dei fratelli si son tenuti asciutti/ compagni sia ben chiaro che questo sangue amaro/ versato a Reggio Emilia è sangue di noi tutti/ sangue del nostro sangue nervi dei nostri nervi/ come fu quello dei fratelli Cervi […]Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli/ e voi Marino Serri, Reverberi e Farioli/ dovremo tutti quanti aver d’ora in avanti/ voialtri al nostro fianco per non sentirci soli/ morti di Reggio Emilia uscite dalla fossa/ fuori a cantar con noi bandiera rossa».

Quanti conoscono le parole della canzone di Fausto Amodei dedicata ai morti di Reggio Emilia? Forse ricordano le strofe vecchi “compagni” del Pci e qualche manifestante del Sessantotto e probabilmente alcuni della generazione contestatrice degli anni Settanta. Una ballata triste e lamentosa che ritualizza il sacrificio della morte collegandolo ai valori della Resistenza. Il monito dell’autore è strettamente connesso alla tematica della rivoluzione tradita, ovvero di una Resistenza che non è riuscita a portare avanti un’istanza di cambiamento generale, nelle istituzioni e nella società, rimanendo soffocata dalla scelta “continuista”, imposta dagli alleati e organizzata dalla Democrazia cristiana, quale giustificazione apologetica della necessità di tutelare, ai fini di una rapida ripresa postbellica, l’apparato statale e industriale.

Ma la connessione con la Resistenza è anche frutto di un dato concreto: tre, dei cinque caduti sotto il fuoco della Polizia di Stato e dei Carabinieri, sono stati partigiani (Marino Serri, Afro Tondelli, Emilio Reverberi), gli altri due sono giovani operai: Lauro Farioli, di 22 anni, e Ovidio Franchi, di 19 anni.

Come si giunge alla tragedia del sangue versato? Non è possibile ricostruire l’evento senza sapere che il luglio 1960 rappresenta un crinale di passaggio nella storia repubblicana. Il Centrismo, l’alleanza quadripartitica (Dc, Psdi, Pli, Pri) che ha guidato l’Italia negli anni della Ricostruzione, è in crisi dalla metà degli anni Cinquanta. I governi democristiani, dopo il ritiro e la morte di Alcide De Gasperi, hanno perduto una stabile maggioranza parlamentare.

La soluzione più agevole è parsa anche quella più logica: tenendo ferma la conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti, il partito di maggioranza relativa si barcamena tra Senato e Camera dei deputati logorandosi nella tattica del “centrismo pendolare”. Leggi e provvedimenti sono approvati da maggioranze spurie in cui confluiscono, a seconda dei temi trattati, voti monarchici e missini, da destra, o dei socialisti, da sinistra. Il tutto è legittimato dal “programmismo fanfaniano” che privilegia gli accordi su specifici dispositivi legislativi, in modo da lasciare nella mani della sola Dc lo scettro del comando (e il controllo dello Stato), ponendo in secondo piano la creazione di una coalizione ideologicamente omogenea.

Certo si è in attesa di una definitiva presa di posizione del Partito socialista, ormai slegato dal patto di unità d’azione con il Pci, a favore di un ingresso nell’area di Governo. Ma è proprio l’esasperazione di questo attendismo tattico programmatico che provoca lo scoppio di un’ondata di violenza politica. Un’onda d’urto che mostra, per la prima volta, l’esistenza concreta di una corrente sotterranea reazionaria, ancora viva a quindici anni dalla fine del conflitto, in opposizione alle possibili innovazioni nel quadro delle alleanze (centro-sinistra).

Andiamo ai fatti. Nella primavera del ’60 cade il governo Segni, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, dopo aver affidato a Fanfani un tentativo di centro-sinistra, incarica Ferdinando Tambroni che costituisce un monocolore “attento” ai socialisti. L’incertezza dell’azione di governo provoca una crisi che si risolve con il reincarico a Tambroni. Il Presidente del Consiglio, pur di non fallire nella sua missione, punta questa volta sul sostegno di monarchici e missini. Il Movimento sociale mette alla prova il Governo chiedendo, a maggio, l’autorizzazione a svolgere il sesto congresso nazionale nella città di Genova, medaglia d’ora della Resistenza, da cui è partita l’insurrezione del 25 aprile.

Il 2 giungo, durante la festa della Repubblica, il dirigente comunista Umberto Terracini (già presidente dell’Assemblea costituente) in un comizio a Lumarzo (in provincia di Genova) incita le forze antifasciste a prendere posizione contro l’assise missina. Tra il 5 e il 25 giugno si pubblicano appelli, si organizzano riunioni e si indicono manifestazioni per fermare la convocazione del congresso. Intanto Tambroni è stato avvertito del rischio di possibili disordini, ma si va avanti, anzi il Msi si prepara alla scontro facendo giungere a Genova «almeno un centinaio di attivisti romani, scelti tra i più pronti a menar le mani».

La goccia che fa traboccare il vaso è la notizia che ad aprire i lavori sarà Carlo Emanuele Basile, sottosegretario all'Esercito e prefetto della città ai tempi della Repubblica Sociale Italiana. Basile è ricordato a Genova per gli editti del marzo 1944, contro lo sciopero bianco e le proteste indette dagli operai, a cui è seguita, come risposta all’insubordinazione, la deportazione di alcune centinaia di lavoratori nei campi di lavoro della Germania nazista.

Il 28 giugno Sandro Pertini infiamma la piazza e incita i genovesi a fermare il congresso. Dopo due giorni la manifestazione di protesta sembra procedere senza incidenti, allorché, quando il corteo sembra defluire, si scatena una battaglia tra manifestanti e celerini. Gli scontri proseguono e gli organizzatori della manifestazione temono che, per porvi fine, venga ordinato alle forze dell'ordine di aprire il fuoco sulla folla.

Il presidente dell'ANPI, Giorgio Gimelli, si accorda, perciò, con alcuni ex-partigiani, tra cui un funzionario di polizia, per fermare gli scontri, avendo in cambio l'assicurazione che le forze dell'ordine si sarebbero ritirare senza effettuare nessun arresto. Al termine della “battaglia” si registrano 162 feriti tra gli agenti e circa 40 feriti tra i manifestanti.

La scintilla di Genova appicca il fuoco in tutto il paese. Da Nord a Sud è tutto un susseguirsi di scioperi e manifestazioni: Roma, Torino, Milano, Livorno e Ferrara. Il 5 luglio a Licata la protesta del sindacato muta in tragedia: negli scontri perde la vita Vincenzo Napoli mentre cerca di difendere un bambino tenuto fermo ad un muro e picchiato dai celerini. Ci saranno inoltre 24 feriti. Il giorno successivo, a Porta San Paolo, Roma, le forze dell’ordine feriscono alcuni deputati comunisti e socialisti, durante un corteo in solidarietà dei compagni genovesi. A Milano viene distrutta la sede del Partito Radicale, a Ravenna, durante le ore notturne, un gruppo di neofascisti incendia l'abitazione di Arrigo Boldrini, segretario nazionale dell'ANPI.

Il sette luglio la CGIL di Reggio Emilia organizza uno sciopero generale e una manifestazione cittadina per esprimere solidarietà ai lavoratori di Licata. La prefettura, però, vieta ai sindacati di far partire il corteo e ai manifestanti di stazionare in piazza della Libertà. L’unico spazio concesso è la Sala Verdi che non può contenere i 20.000 lavoratori accorsi alla manifestazione. Circa 300 operai dell’OMR (Officine Meccaniche Reggiane) si raccolgono, allora, davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio, 350 poliziotti, comandati dal vice-questore Giulio Cafari Panico, e alcuni carabinieri, comandati dal tenente colonnello Giudici, caricano i manifestanti inermi ordinando agli agenti di sparare ad altezza uomo. Così muoiono i cinque di Reggio Emilia.

Lauro Farioli, soprannominato “Modugno”, è uscito di casa con pantaloni corti, una camicetta rossa, le ciabatte ai piedi; uditi i primi spari va incontro ai poliziotti, vorrebbe parlare e fermarli. Gli agenti, invece, appena lo vedono avvicinarsi lo colpiscono in petto. Ovidio Franchi viene ferito all’addome, cerca di rimanere in piedi, aggrappandosi a una serranda, un compagno prova ad aiutarlo ma un militare spara a entrambi; morirà a causa delle ferite riportate. Emilio Reverberi (operaio delle OMR, licenziato perché iscritto al PCI) è abbattuto brutalmente da una raffica di mitra, sotto i portici del quartiere San Rocco, in piazza Cavour; spirerà in sala operatoria. Marino Serri muore sul colpo, raggiunto da una mitragliata, mentre sta piangendo di rabbia e gridando “Assassini!”. Afro Tondelli, infine, si trova al centro di Piazza della Libertà quando l’agente di PS Orlando Celani estrae la pistola e gli spara dopo aver preso la mira. Prima di spirare dirà al suo soccorritore: «Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia».

Ma la tragedia non termina qui. L'otto luglio anche Palermo scende in piazza. Per la prima volta si vedono sfilare le donne e i bambini dei quartieri poveri della città. Come è accaduto per le altre manifestazioni, il Governo ha dato precise disposizioni a prefetti e questori: in caso di necessità reagire alle provocazioni aprendo il fuoco, sparando ad altezza uomo. Il primo a essere colpito è Giuseppe Malleo, 16 anni, raggiunto al torace da una pallottola di moschetto. Subito dopo Andrea Cangitano, 14 anni, ucciso da un raffica di mitra. L’ultimo è Francesco Vella, 42 anni, operaio, sindacalista della Cgil. C’è anche una quarta vittima: Rosa La Barbera, 53 anni, raggiunta da un proiettile vagante mentre si appresta a chiudere la finestra. Trentasei persone riportano ferite da arma da fuoco, 370 dimostranti vengono fermati e 71 sono gli arrestati.

In totale saranno undici i morti nelle varie manifestazioni, oltre a centinaia di feriti.  Alla fine Tambroni è travolto dal suo stesso autoritarismo. Tocca di nuovo a Fanfani che sfrutta l’indignazione popolare per formare un altro governo centrista con la significativa astensione dei socialisti. L’ingresso del Psi nella «stanza dei bottoni» è ormai vicino, ma, come spesso è accaduto nella storia d’Italia, è stato necessario inondare il paese di sangue prima di cambiare.

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