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Peppino Impastato, riflessioni a 34 anni dalla morte

Il 9 maggio 1978, mentre l’intero paese apprendeva della morte di Moro, Cinisi veniva sconvolta dalla morte di un uomo semisconosciuto: Peppino Impastato. Il corpo veniva rinvenuto accanto ai binari ferroviari, gli assassini tentarono di infangarne la memoria simulando un attentato dinamitardo andato a male. Dopo 34 anni, Impastato è diventato il simbolo della lotta alle mafie.
A cura di Anna Coluccino
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Trentanni da vivo. Trentaquattro da morto. Eppure, per uomini come Peppino Impastato, una manciata d'anni sulla Terra è più che sufficiente per lasciare un segno indelebile nella coscienza sopita e macchiata di Paese che non potrà mai dirsi innocente rispetto al crescere e il fiorire delle mafie. La neutralità rispetto a questo tema, in un paese come il nostro, è un banale non sense: è indifferenza, è complicità. "La mafia uccide, il silenzio pure", questa una delle frasi più celebri di Impastato, parole che ancora campeggiano un po' ovunque in Italia e che racchiudono il senso ultimo di una vita come la sua: trascorsa a cento passi dal nemico, circondata dal complice silenzio di amici e parenti. Sarebbe bello non aver bisogno d'eroi – ed ancor meno di martiri – ma finché la lotta viene lasciata all'iniziativa di pochi e al coraggio di uno sparuto gruppo di resistenti, non esiste altra via che quella del gesto eroico per tentare di cambiare le cose. E il gesto eroico può arrivare da un luogo e un tempo qualunque; può partire da chiunque, anche dal più piccolo e isolato degli esseri umani. Ecco perché poco importa se Peppino nacque in un paese di diecimila anime, ancor meno conta che fosse cresciuto in un contesto a dir poco colluso con l'apparato mafioso; a volte vivere con coraggio, accettando il rischio di morire, è più che sufficiente perché un'idea superi i limiti biologici del corpo e delle mente che l'hanno prodotta, perché superi i confini geografici che le hanno dato i natali e diventi simbolo di lotta universale.

Parole e concetti semplici, gli unici in grado di esprimere con chiarezza il valore di una vita come quella di Peppino Impastato, esponente di Democrazia Proletaria, uomo di poesia oltre che d'azione, un comunista che ha insegnato ai suoi stessi compagni il valore della creatività come forma di lotta. Sembrerebbe ovvio pensare che, a trentaquattro anni dalla morte, la ferita si sia ormai rimarginata e sia facile scegliere da che parte stare. Almeno oggi, almeno ora che tutto è compiuto e la morte ha messo ogni cosa al suo posto mostrando cos'è giusto e cos'è sbagliato. Eppure non è così. Infatti, alla richiesta di Giovanni Impastato di celebrare una messa in ricordo del fratello, don Pietro D’Aleo – parroco della Ecce Homo – ha risposto che "i tempi non sono maturi" e che una veglia sarebbe stata preferibile. Paura e ritrosia sono ancora lì, dove Peppino le aveva lasciate trentaquattro anni or sono, immutabili e inamovibili, eterne. E allora viene da chiedersi a cosa sia servita la lotta del giovane siciliano se non a sollevare un leggerissimo velo, se non ad avvicinarsi di un solo passo alla conquista di un'emancipazione di cui non si intravedono che i vaghi contorni. Ne mancano novantanove di passi. Le idee di Peppino sono ancora vive, mancano le gambe.

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