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Palestina vicina al riconoscimento dell’ONU – USA e Israele minacciano “punizioni”

Il sì di Parigi, il sì di Berna, il possibilismo britannico: tutto sembra orientato verso il definitivo assenso al riconoscimento della Palestina quale Osservatore Permanente presso le Nazioni Unite. USA e Israele minacciano “punizioni”, ma sono sempre più soli.
A cura di Anna Coluccino
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Sono anni che la questione viene rimandata. Anni che – al minimo accenno a un possibile riconoscimento dello stato palestinese da parte delle Nazioni Unite – USA e Israele danno in escandescenza e affermano che, rivolgendosi all'ONU, la Palestina "scavalca il processo di pace" e "ostacola il raggiungimento di un accordo duraturo". Eppure non è ancora chiaro come la semplice richiesta di riconoscimento da parte della Palestina rappresenti un atto lesivo della dignità di Israele, tale addirittura da scatenare aperte minacce nei confronti dei palestinesi e dei loro territori. USA e Israele, infatti, non hanno usato sottili metafore nell'affermare che all'eventuale richiesta di riconoscimento faranno seguito "misure punitive".  Arroganza politica? Secondo USA e Israele si tratta semplicemente di "conservazione della pace", pur non essendo ancora chiaro in che modo la richiesta rappresenti una dichiarazione di guerra. Stavolta non c'è stata alcuna "pioggia di razzi", non ci sono stati attentati alla sicurezza di Israele ma solo l'avanzamento di una richiesta democratica all'indirizzo di un'organizzazione internazionale che – da sempre – è protagonista della questione israelo-palestinese; un'organizzazione che ha preso decisioni pesanti, in passato, e alla quale non può essere chiesto – ora – di stare in disparte, perché si è presa fin troppe responsabilità fino a questo momento. Prima tra tutte, quella di dividere in due la terra palestinese, dando poi sostanza e pieno riconoscimento allo stato di Israele. Perché mai non dovrebbe fare lo stesso – a distanza di oltre sessant'anni – con lo stato di Palestina?

Tanto più che l'obiettivo sbandierato (e ufficialmente auspicato) da tutti i protagonisti della vicenda israelo-palestinese è l'istituzione di due popoli e due stati; ma se così fosse, non si dovrebbe partire proprio dal rendere più simile possibile (se non uguale) lo status internazionale dei due popoli? Come si può avviare un credibile processo di pace se ai due stati non viene riconosciuta pari dignità internazionale e non vengono garantiti – a entrambi – uguali diritti e doveri? Possibile che la richiesta della Palestina venga tacciata d'essere quasi una dichiarazione di guerra nei confronti di Israele; un atto non necessario, irricevibile e addirittura punibile con pesanti rappresaglie economiche? Secondo alcune fonti interne al governo di Israele, infatti, Netanyahu sarebbe pronto ad annettere illegalmente una parte del West Bank per far sì che la maggior parte degli insediamenti resti sotto l'egida di Israele. In mattinata, inoltre, un alto ufficiale israeliano ha affermato: "Di certo vedremo fuochi d'artificio a Ramallah, ma gli insediamenti resteranno esattamente dove sono e le forze di difesa israeliane continueranno a lavorare esattamente nella stessa area". Nonostante i proclami e la stesura del quaderno delle buone intenzioni, quindi, USA e Israele non sembrano avere l'atteggiamento di chi ha accettato e promuove l'idea dei due popoli e dei due stati. Almeno non in questa circostanza.

Da parte loro, i leader palestinesi sembrano procedere all'unisono, senza spaccature interne, tanto che l'alto funzionario Mohammed Shtayyeh ha affermato che lo Stato di Palestina "non posporrà la richiesta in nessuna circostanza."  E ha continuato: "Noi speriamo che il passo delle Nazioni Unite si trasformi in uno strumento di pressione perché Israele arrivi al tavolo dei negoziati con delle proposte serie". Secondo le dichiarazioni Shtayyeh, infatti,  la principale motivazione a supporto della richiesta di riconoscimento  è quella di "preservare la soluzione dei due stati" che – stando alle parole dei leader palestinesi – Israele non pratica da molto tempo. Rispetto alle minacce di USA e Israele, invece, l'alto funzionario ha affermato: "Quando sento parlare di misure punitive, mi viene da pensare a cosa avremmo fatto per meritarle. Noi crediamo che un passo di questo tipo non meriti alcuna punizione". E  ha aggiunto: "Ci è stato chiesto di scegliere tra il pane e la libertà. La nostra scelta è: entrambe le cose. Naturalmente abbiamo bisogno di pane, ma abbiamo bisogno anche di libertà".

Le preoccupazioni di Israele, però, non riguardano principalmente il processo di pace  quanto – piuttosto – il riconoscimento della Palestina quale membro di organismi internazionali come la Corte Penale dell'Aja. In questo quadro, infatti, Israele potrebbe essere incriminata per le reiterate violazioni dei trattati internazionali e per le violazioni dei diritti umani denunciate da diverse ONG nel corso degli anni e ripetutamente segnalate dagli osservatori delle stesse Nazioni Unite. Interrogato a questo proposito, Shtayyer ha dichiarato: "Se qualcuno è preoccupato per questa o quella corte, sarebbe stato meglio se non avesse commesso atrocità contro il popolo palestinese". È evidente – quindi – che le intenzioni dello Stato di Palestina vadano oltre il desiderio di fare pressione per ottenere sia pane che libertà dal processo di pace; e non riguardano, soltanto, il desiderio di ottenere riconoscimento internazionale e quindi un maggiore peso politico al tavolo dei negoziati; l'obiettivo è anche quello di ottenere giustizia per le molteplici vessazioni subite in questi anni.

La Palestina diventerà lo stato numero 194 dell'ONU?

Secondo i dati raccolti da Abu Mazen e da altri leader palestinesi – non ultimo il presidente Mahmoud Abbas, fervente sostenitore del tentativo – almeno 130 stati su un totale di 193 componenti dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dovrebbero approvare la richiesta dello Stato di Palestina di entrare a far parte dell'ONU con lo status di "Osservatore Permanente", lo stesso concesso allo Stato del Vaticano. Fino ad oggi, le Nazioni Unite hanno avuto quale unico interlocutore l'Autorità Nazionale Palestinese (entità accreditata internazionalmente in seguito ai trattai di Oslo del 1993), ma a partire dal prossimo 29 novembre le cose potrebbero essere diverse. Nonostante i numeri a favore del riconoscimento sembrino schiaccianti, però, meglio non sbilanciarsi con i pronostici. Da un lato – infatti – i continui appelli di Obama e Clinton al presidente palestinese Mahmoud Abbas perché rinunci – almeno momentaneamente – al riconoscimento, lasciano intendere che tale riconoscimento sia cosa quasi certa; dall'altro, meglio non dimenticare come sono andate le cose lo scorso anno con il Consiglio di Sicurezza.

Lo scorso settembre, infatti, Abu Mazen presentò una provocatoria richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina quale membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Era scontato, infatti, che anche davanti al "sì" unanime del Consiglio, gli USA avrebbero comunque fatto valere il potere di veto che – ancora oggi – viene concesso ai cinque membri permanenti del Consiglio (vale a dire ai vincitori della Seconda Guerra Mondiale: USA, Francia, Regno Unito, Russia con l'aggiunta della Cina). Questi stati hanno il potere di mandare all'aria qualsiasi risoluzione. E molte volte gli Stati Uniti si sono fatti scudo del veto per far cadere risoluzioni che avevano il beneplacito dell'intero consiglio; com'è accaduto, ad esempio, nel febbraio 2011, quando – su 15 votanti – gli USA furono gli unici ad opporsi alla condanna di Israele per aver continuato a costruire insediamenti a Gerusalemme est e nei territori palestinesi. Ma lo scorso settembre, davanti alla richiesta palestinese di diventare membro a tutti gli effetti dell'ONU, non fu neppure necessario il veto degli USA perché la Bosnia ritirò il suo assenso sorprendendo tutti con un'inattesa astensione. Stavolta le cose dovrebbero andare diversamente. Stavolta è l'Assemblea Generale a essere chiamata a decidere e non del Consiglio di Sicurezza. E nell'Assemblea non esiste il diritto di veto. Tutto ciò che occorre è una maggioranza relativa: il 50% più uno degli aventi diritto al voto.

Nonostante la grande attesa, i leader palestinesi hanno invitato la popolazione a non farsi illusioni. Il passo è cruciale ma non è affatto detto che sia risolutivo della questione. I palestinesi sanno bene che una cosa sono i proclami, i trattati, le disposizioni internazionali, un'altra sono i fatti e le ripercussioni reali che questi hanno sulla loro vita quotidiana. Spesso, la realtà procede in direzione opposta a quanto sancito a livello internazionale ed è proprio per questo che il passaggio con le Nazioni Unite viene assunto – oggi – come una conditio sine qua non per la ripresa dei negoziati. Basti pensare, ad esempio, alla tregua che ha fatto seguito all'operazione Colonna di Difesa. Alla firma della tregua si era detto che occorreva rinegoziare il pesante embargo imposto alla Striscia di Gaza – illegittimamente – da oltre sei anni. Israele ha infranto la tregua ferendo diversi palestinesi e assassinando un giovane ventitreenne lungo la frontiera di Gaza (pare stesse piantando una bandiera di Hamas). Fortunatamente, Hamas è stato invitato a non reagire. La tregua regge, ma i due protagonisti non si sono neppure seduti a discutere dei dettagli.

Da anni Israele occupa illegalmente buona parte dei territori che – nel 1967 – furono ufficialmente assegnati allo stato palestinese; da anni si assiste a puntuali e costanti violazioni dei diritti umani; da anni Gaza viene periodicamente bombardata e quotidianamente sottoposta a un durissimo regime di Apartheid; un embargo vero e proprio dal quale non esiste via d'uscita se non quella diplomatica. La sproporzione di mezzi che esiste tra Israele e Palestina, infatti, non consente neppure in teoria lo scatenarsi di un conflitto (in ogni caso scongiurabile); il che riporta la questione nella mani dell'ONU. Israele ha tutti i mezzi per annientare o – quanto meno – rendere davvero poco efficacie la resistenza armata palestinese e, fino ad oggi, ha potuto muoversi ben al di là della legge internazionale, nella certezza dell'impunità.  Ha costruito una barriera che la separa dalla Cisgiordania; un muro alto 8 metri e lungo 725 chilometri che, di fatto, ingloba la quasi totalità dell'acqua potabile e sconfina in zone che non appartengono a Israele. Intere sezioni della barriera sono stati costruite su terre confiscate a palestinesi e la linea verde che definisce i confini legali dello Stato di Israele viene ripetutamente violata, soprattutto intorno alla città di Gerusalemme.

Israele ha diritto a difendersi. È questo che si ripete, a mo' di mantra, da sempre. E nessuno nega che avrebbe diritto a rispondere a un attacco, o a prevenirlo con mezzi diplomatici. Ma una richiesta di riconoscimento non è un attacco; anche se ha delle conseguenze sul piano politico. Il governo di Israele rivendica spesso il proprio status di "unico paese democratico del Medio Oriente" uno status che, sul piano dei diritti civili, nessuno nega. Uno status che andrebbe allargato ai cittadini di nazionalità palestinese ma che di certo, in materia di politica interna, non ha i contorni fondamentalisti che si registrano in altri stati mediorientali. E proprio per questo occorrerebbe applaudire a quanto accadrà in seno all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: lo Stato di Palestina, domani, compirà un gesto che si iscrive appieno nel percorso democratico; ogni giudizio futuro sull'operato di Israele verrà demandato alla Corte Internazionale perché valuti secondo criteri super partes; ogni risoluzione e trattato firmato da entrambe le parti avrà più garanzie di essere rispettato. Si chiama democrazia. E funziona solo se non si fanno eccezioni.

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