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Ora il Nobel Aung San Suu Kyi ammette crisi umanitaria: “Condanniamo violenze sui Rohingya”

il ministro degli Esteri della Birmania parla alla Nazione della crisi umanitaria che sta colpendo la minoranza musulmana dei Rohingya. “La maggioranza delle persone non ha preso parte all’esodo. Bisogna capire le cause che lo hanno provocato”.
A cura di Maurizia Marcoaldi
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"Condanniamo ogni violazione dei diritti umani e violenze illegali". Interrompe così il silenzio la leader birmana Aung San Suu Kyi, consigliere di Stato e ministro degli Esteri. In un intervento trasmesso in televisione annuncia al Paese la volontà di prendere coscienza della crisi umanitaria in corso che sta colpendo la popolazione Rohingya. "Anche noi siamo preoccupati. Vogliamo identificare i problemi reali. Ci sono state accuse e contestazioni, dobbiamo ascoltarli tutti e dobbiamo assicurarci che questa affermazioni siano basate su prove solide prima di agire", ha aggiunto di fronte a una platea di diplomatici stranieri. Sono centinaia di migliaia i Rohingya che dall'inizio delle violenze, dallo scorso agosto, fuggono in Bangladesh per sfuggire alle violenze perpetrate da parte dei militari del governo birmano. L'esodo avviene in particolare dallo stato occidentale di Rojkhine dove la minoranza musulmana vive. I loro insediamenti si trovano soprattutto nel nordovest della Birmania. Rojkhine è uno degli stati più poveri della Birmania e al suo interno vivono un milione di cittadini Rohingya su una popolazione di 3 milioni di persone a maggioranza buddista.

A livello internazionale sono state molte le critiche alla Birmania da quanto è iniziata la crisi umanitaria che ha colpito questa minoranza etnica. In particolare le istituzioni internazionali, gli attivisti  per i diritti umani e anche l'Onu hanno accusato la leader della lega nazionale per la democrazia Aung San Suu Kyi di "disinteresse" di fronte alla grave situazione che questi civili stanno vivendo nel suo Paese. Per l'Onu infatti nel Paese si sta è in corso "una pulizia etnica".

Nel suo intervento in televisione la premio Nobel per la Pace ha sottolineato che "la maggioranza delle persone non ha preso parte all'esodo. Bisogna capire le cause che lo hanno provocato", aggiungendo poi di non temere le critiche della comunità internazionale.  Senza mai citare direttamente le violenze subite dalla popolazione Rohingya, ha annunciato un impegno concreto da parte del governo che "sta compiendo ogni sforzo per promuovere pace e stabilità".

Nel discorso nessuna accusa ai militari e, dopo aver affermato che la maggior parte dei villaggi abitati dalla minoranza non sono stati oggetto di violenza, ha anche invitato i diplomatici a visitarli. Aung San Suu Kyi ha così concluso che il paese è pronto a garantire il rientro della popolazione Rohingya.

La repressione dell'esercito birmano ha riacquistato vigore dal 25 agosto scorso, ma il primo esodo si verificò nel 1970 quando circa 250mila civili furono costretti a lasciare le proprie case dall'esercito birmano. Attualmente sono circa 140 mila le persone della minoranza etnica che vivono in campi di rifugio. Il governo non li ha mai inclusi ufficialmente nella lista dei 135 gruppi etnici presenti in Birmania.

Secondo le stime dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati a Dacca, sono 123mila i Rohingya che, dalle violenze del 25 agosto scorso, sono entrati in Bangladesh.

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