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“Maestri di finizione”: Francesca Borrelli intervista i più grandi scrittori

Francesca Borrelli, critico letterario de Il Manifesto ha raccolto in un libro intitolato Maestri di finzione, edito da Quodlibet, una serie di interviste dedicate a quarantatrè fra gli autori più importanti di oggi: da Saramago a De Lillo, a Yeoshua, a Agota Kristof a Franzen, a David Foster Wallace e Paul Auster, giungendo fino a Robbe Grillet e Annamaria Ortese.
A cura di Luca Marangolo
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Chiunque abbia a cuore il romanzo contemporaneo o semplicemente abbia talvolta speculato sul fatto che esiste, oggi, un orizzonte d’attesa culturale a cui una cosa chiamata scrittura reagisce e risponde, non puo non leggere «Maestri di finzione di Francesca Borrelli, edito da Quodlibet.

E’ una vera carta geografica in forma di interviste a scrittori notevoli del nostro tempo raccolte in molti anni di attività per il Manifesto. L'autrice intarsia le interviste nella cornice della sua prosa esatta, rapida e severa, che appare il frutto di un lunga, meditata ed elaborata analisi sui nuclei profondi dei colloqui colelzionate nel testo.

Una delle cose che colpiscono sia lungo le stesse interviste, sia quando l’autrice prende parola per introdurle, è la fervida tensione concettuale alla definizione: si cerca con puntiglio una definizione, una elabroazione aforistica cui affidare la condizione e la natura del romanzo, della scrittura; e cosi si va dalla frase di Thibaudet, cara alla Borrelli, per cui  il romanzo è « l’autobiografia del possibile» al David Foster Wallace che in un passaggio dice che scrivere, per lui, significa creare « un’intimità non superficiale » con il lettore,  per arrivare al richiamo allo storytelling di cui parla Edward Morgan Foster in Aspects of the Novel.

Questa tendenza autodefinitoria, anche se non è la cosa più importante, è forse una

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peculiare spia di ciò che vuol dire fare critica letteraria oggi: è continuamente ripensare o semplicemente ricalcare con la mebnte l’identità della scrittura. Tutti questi grandi scrittori intervistati dalla Borrelli, persino quelli che hanno effettivamente un dominio assoluto sulla loro materia,  talvolta sembrano come Hansel e Gretel spersi in un bosco narrativo: i due bambini hanno passeggiato con la naturalezza di chi ha compiuto, fin ora, un gesto assai familiare e poi, all’ improvviso, sono chiamlati all’esigenza di riflettere su dove sono, su cosa e come hanno fatto cio che hanno fatto.

Questa necessità è veramente il segno dei tempi, di una critica che, proprio perchè non ha più ne canoni certi ne schemi teorici cui de responsabilizzarsi, non può che essere richiamata costantemente allo sforzo concettuale.

L’effetto generale è dunque una riflessione molto vasta, quasi ontologica, su cosa voglia dire scrivere. E la vastità è proprio data dal fatto che nel libro le prospettive esistenziali dei vari Robbe-Grillet, Pynchon, De Lillo, Yeoshua, Saramago, Agota Kristof, Franzen, si intrecciano tra di loro come mondi che altrimenti sarebbero stati paralleili in un tempo storico comune, che poi è, fra l’altro, il nostro, a cavallo di più generazioni.

Ne scaturisce quasi naturalmente anche una profonda ricognizione  sul concetto di Autore, sia inteso come categoria testuale, una intellgienza narrativa che soprassiede allo svolgersi delle vicende narrate, sia come categoria culturale e sociologica, una mente che produca senso rielaborando in forma di scrittura quel che assimila dal contesto e della sua esperienza.

Ovviamente questi due piani sono intrecciati: l’ autrice non tarda ad evidenziarlo sin

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dall’introduzione, notando come molta della critica letteraria recente non abbia fatto altro che costantelmente privilegiare la figura dell’ autore, esaltandone l’incisività (dissacrante nel caso di Vonnegut, socio-culturale nel caso di De Lillo), oppure operando su di essa un forte riduzionismo di matrice filologica o strutturalista, per cui, a seconda dei due casi, l’autore è assimilato al testo o al contesto.

E’ un libro molto bello e rigoroso, attento, non privo di ritratti psicologicamente forti: le interviste sono pensate per esaltare l’individualità dell’intervistato, esserne lo specchio e connotarlo umanamente anche a partire dalla materia concreta dello scrivere. Saramago ad esempio rivendica la totale e radicale presenza dell’autore su ogni personaggio e ogni fatto narrati, Auster invece sembra seguire la storia come su un sentiero dove lascia le sue tracce lungo il cammino: tutti questi elementi sono contemporaneamente stilistici antropologici ed esistenziali, e permettono al lettore dell’intervista di comprendere la stretta sutura che c’è tra la vita di chi ha scritto questi libri e l’attività materiale dello scrivere.

Oltre che un documento è un lucido strumento di critica « militante » che lascia intravedere una visione intellettualmente coerente e contempanea dello scrivere, che emerge per di più da un gesto che in apparenza è meravigliosamente contradittorio: rigoroso, preciso e tecnico, ma anche spontaneo, emotivo e intenso; Il gesto del narrare.

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