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Opinioni

Made in Italy: sempre più stranieri, sempre meno banche

Mentre i dati del lavoro continuano ad essere pessimi, cresce la percentuale delle imprese italiane controllate da investitori esteri. A vendere sono spesso le banche, che vanno allentando il legame con le imprese non solo nell’ex bel paese…
A cura di Luca Spoldi
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Venghino signori venghino: mentre il governo prova a rigirare la frittata del dato, pessimo sotto ogni punto di vista, del mercato del lavoro di novembre (con occupati calati a 22,31 milioni, 48 mila in meno di fine ottobre ovvero 42 mila in meno di un anno prima, ma anche 14 mila in meno rispetto a febbraio, quando Matteo Renzi andò al governo impegnandosi a “rottamare” tutto il vecchio che impediva all’Italia di entrare nel nuovo secolo, quello dei telefonini che non vanno a gettoni, per intenderci), col ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che prova a rinviare “ai prossimi mesi” la verifica degli attesi (dal governo) effetti benefici della riforma introdotta col Jobs Act, trovando “ragionevole ipotizzare che la decontribuzione triennale totale prevista per i nuovi assunti a tempo indeterminato nel 2015 e l’attivazione del contratto a tutele crescenti possano influire sulle scelte di molte imprese, spingendole a rinviare la decisione di procedere a nuove assunzioni” a quando le misure previste saranno pienamente in grado di dispiegare i propri mirabili effetti (decontribuzione fino al 70% del costo del lavoro, ipotesi che peraltro vale solo per gli assunti a tempo indeterminato nel 2015 e solo per redditi lordi che facciano ricadere i lavoratori nella platea di coloro che possono beneficiare del bonus Irpef, anche noto come “bonus 80 euro”, dunque un caso limitato e temporaneo), aumenta il numero di imprese tricolori che finisco sotto controllo estero.

Secondo quanto segnala Centro studi di Unimpresa a fine giugno 2014 il 44,3% delle società per azioni italiane quotate in Borsa, che hanno visto crescere la capitalizzazione complessiva di 156 miliardi di euro rispetto a fine giugno 2013 (arrivando a valere 509,79 miliardi contro i 352,946 di un anno prima) era posseduto da soggetti esteri. Insomma, come detto tante volte anche su queste pagine l’appeal del “made in Italy” non sembra conoscere crisi, nonostante sei anni di calo della domanda interna che sta mettendo fuorigioco migliaia di piccole e medie imprese e continua a far ingrossare le fila dei senza lavoro nell’ex “bel paese” (in controtendenza rispetto a quanto accade in altri mercati europei come Germania, Francia o Spagna). Se gli stranieri comprano, spesso si noti non per finalità di investimento a medio-lungo termine quanto di breve respiro, specie per quanto riguarda le imprese italiane quotate in borsa, chi è che vende? A scorrere le tabelle di Unimpresa sembrano essere soprattutto le banche, che hanno visto infatti ridursi il valore delle proprie partecipazioni in imprese italiane da 32,144 a 30,844 miliardi (-4%), scendendo così dal 9,1% al 6,1% del totale.

Sarebbe interessante capire se questo trend di disinvestimento stia ad indicare che gradualmente gli istituti creditizi italiani stanno “disincagliando” partecipazioni non più strategiche per troppo tempo tenute in portafoglio per ragioni soprattutto di buone relazioni (incrociate) con i vari potentati italiani (vengono alla memoria i casi Rcs Mediagroup, ma anche Telecom Italia, il gruppo Fiat piuttosto che il gruppo Pirelli, tutti “fulgidi esempi” di quel capitalismo salottiero inaugurato decenni or sono da Mediobanca e poi adottato come modello “sistemico” da qualsiasi banca abbia ambito ad un ruolo di protagonista nell’economia ma anche nella politica italiana, da Unicredit a Intesa Sanpaolo sino a Mps solo per citarne alcune), o se non si tratti anche e soprattutto delle ulteriori svalutazioni intervenute nel corso degli ultimi trimestri a fronte di partecipazioni il cui valore è ormai stabilmente lontano dai valori storici a cui era stato iscritto in bilancio. In ogni caso che il legame banche-imprese si stia allentando, anche a costo di far spazio a qualche gruppo estero, è evidente da tempo e non è limitato solo all’Italia.

E’ di oggi un’inchiesta dell’agenzia Bloomberg secondo cui a New York, un tempo indiscusso regno della finanza mondiale, le compagnie finanziarie che un tempo dominavano gli spazi commerciali del World Trade Center rappresentano ormai solo una piccola percentuale degli affittuari dei nuovi edifici ricostruiti a “ground zero”. A prendere il loro posto nell’arco di poco più di un decennio sono state, nel caso americano, imprese del settore comunicazioni e media, come Conde Nast che ha stabilito il suo quartier generale presso l’1 World Trade Center, una torre di vetro e acciaio di 541 metri d’altezza, mentre MediaMath, società che si occupa di advertising digitale, ha scelto il 4 World Trade Center. La rivoluzione digitale è sempre più il motore della crescita americana ma ha anche qualche contraccolpo: le nuove imprese high-tech sono spesso di piccole dimensioni (anche se alcune come Google o Facebook possono diventare dei giganti in pochi anni) e questo significa minor richiesta di spazi e maggiore incertezza in termini di occupazione degli stessi nel corso degli anni.

L’epoca d’oro per i grandi affittuari, spesso banche e assicurazioni, sembra ormai alle spalle in America e la stessa cosa potrebbe accadere nei prossimi anni in Italia. Dove il mercato immobiliare non è finora crollato clamorosamente solo perché le banche e le assicurazioni non possono farsi carico anche di un tracollo del prezzo degli immobili, di cui hanno pieni i propri portafogli e spesso a prezzi molto elevati. Anche in questo caso probabilmente si seguirà una strategia “giapponese” che per spalmare le perdite su più anni finirà con l’ingessare ulteriormente un paese che già di suo è vecchio, poco incline al cambiamento e ogni giorno più in ritardo rispetto al resto del mondo. E questa volta l’Imu non c’entra per nulla o quasi, con buona pace dell’ennesimo luogo comune.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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