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Made in Italy sempre più preda dell’estero

Krizia vende il marchio ai cinesi di Shenzhen Marisfrolg Fashion, in Versace entra col 20% il fondo americano Blackstone: chi sarà il prossimo “big” dal Made in Italy a salutare il Belpaese? Ed è necessariamente un male?
A cura di Luca Spoldi
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La moda italiana continua a piacere agli investitori di tutto il mondo: se negli scorsi giorni Krizia, storica casa di moda fondata dalla stilista bergamasca Mariuccia Mandelli e da Flora Dolci nel lontano 1954 è finita sotto il controllo della cinese Shenzhen Marisfrolg Fashion (società molto più giovane essendo stata fondata solo nel 2003 dall’imprenditrice Zhu ChongYun, che Forbes ha inserito, nel 2012, nella classifica delle 25 persone asiatiche più influenti nel mondo della moda), il fondo americano Blackstone ha da poco confermato, dopo alcune indiscrezioni apparse sul quotidiano finanziario inglese Financial Times, di avere sbaragliato la concorrenza (i fondi Investcorp e Ccmp) per mettere le mani su una quota del 20% della Gianni Versace Spa, società fondata nel 1978 dallo stilista Gianni Versace e dopo la morte di questi (assassinato nella propria villa a Miami Beach, da Andrew Cunanan il 15 luglio del 1997) passata alla famiglia che l’ha finora controllata attraverso la Givi Holding Spa.

Mentre nel caso di Krizia non sono stati ancora ufficialmente resi noti i dettagli dell’operazione che dovrebbe finalizzarsi entro aprile e non sono ancora noti i dettagli finanziari, Blackstone ha già fatto sapere che l’operazione, che valorizza la casa della Medusa un miliardo di euro a livello di enterprise value (valore complessivo dell’azienda espresso come totale del capitale di rischio e del debito a prezzi di mercato), prevede un’iniezione di 150 milioni di euro di capitali freschi (che serviranno a estinguere i residui 60 milioni circa di indebitamento e a finanziare l’ulteriore sviluppo dell’azienda) attraverso un aumento riservato e l’acquisto del 20% del capitale di Gianni Versace Spa dalla stessa Givi Holding Spa per ulteriori 60 milioni di euro.

Se Krizia parlerà cinese (Zhu ChongYun sarà nominata direttore creativo, con un debutto in passerella previsto già in occasione di Milano Moda Donna nel febbraio 2015), cosa che peraltro non è necessariamente una cattiva notizia visto le potenzialità di rilancio di un marchio che ormai, come ricorda su Twitter il banchiere d’affari Carlo Daveri (Dvr Capital), fatturava 6 milioni di euro l’anno, case emblematico di “inviluppo, dato che 10 anni fa fatturava il triplo” gli fa eco Marco De Benedetti  (Carlyle Group), il marchio Versace, tornata in utile dal 2001 dopo tre anni di perdite, resterà per ora italiano (la famiglia resterà socia di controllo con l’80% del capitale), ma è chiaro che l’appeal per gli investitori esteri resta forte e un domani Blackstone (o altri investitori cui la quota fosse girata) potrebbero provare a fare un’offerta per la maggioranza del capitale di un’azienda che dovrebbe aver chiuso il 2013 (i dati saranno resi noti a fine marzo) con un giro d’affari di circa 480 milioni di euro (+18% rispetto al 2012,) e un Ebitda (margine operativo lordo) in crescita su base annua di oltre il 50% ad “almeno 69 milioni”.

La sensazione è che come già in altre occasioni (l’ultima essendo rappresentata dall’acquisizione per 19 miliardi di dollari di WhatsApp da parte di Facebook) gli investitori, industriali o finanziari che siano, siano sempre più orientati a comprare anche a caro prezzo attività e marchi che mostrano buone prospettive di crescita del giro d’affari e degli utili e che il “made in Italy” abbia da questo punto di vista le carte in regola: Versace dovrebbe facilmente centrare l’obiettivo di raggiungere i 500 milioni di fatturato entro quest’anno indicato a suo tempo dall’amministratore delegato Gian Giacomo Ferraris, le attività di Krizia secondo rumor di stampa potrebbero, prive di immobili, debiti, crediti e contenziosi, valere almeno 35 milioni di dollari/25 milioni di euro a fronte di 4,8 milioni di euro ricavi dalle vendite (cui si sono sommati 6,3 milioni di euro dalle licenze) registrati dal gruppo italiano nel 2012, in calo rispetto agli 8,4 milioni di vendite (più 18,6 milioni dalle licenze) del 2011.

Come dire che al momento i migliori marchi dell’alta moda italiana valgono 2-2,5 volte il proprio giro d’affari annuo agli occhi degli investitori privati. In borsa, del resto, si vedono multipli ancora più elevati: Salvatore Ferragamo (1153 milioni di fatturato l’anno scorso, +17% rispetto all’anno prima) capitalizza 3,96 miliardi, Brunello Cucinelli (322,5 milioni di ricavi l’anno passato, +15,4% su base annua) capitalizza 1,4 miliardi, Tod’s (967,5 milioni di ricavi, +0,5%), che John Elkann “affettuosamente” giudica un’azienda “nana” rispetto a concorrenti come Prada, Armani, Lvmh o Kering, capitalizza 3 miliardi pur essendo rimasta al palo negli ultimi 12 mesi (il titolo ha anzi visto le quotazioni calare dell’8% nell’ultimo anno), Moncler (580 milioni di vendite nel 2013, +19% annuo) pur avendo corretto dai massimi capitalizza ancora 3,3 miliardi.

Per molti imprenditori la tentazione di passare la mano (come hanno già fatto nei mesi passati Loro Piana, Bulgari, Fendi, Pomellato, Pal Zileri e Valentino solo per ricordarne alcuni) è forte, tanto più che complice la crisi da domanda accentuata dalla scellerata politica di repressione fiscale varata anche in Italia su diktat europeo (e tedesco in particolare), nel 2013 il giro d’affari del settore calzature ad articoli di cuoio è calato del 3% mentre l’export ha segnato un ulteriore forte rialzo. Inutile piangere sul latte versato: o il governo Renzi troverà il modo e le risorse per allentare la stretta fiscale (e creditizia) che attanaglia il paese o la “fuga” all’estero dei marchi storici del made in Italy è destinata a proseguire.

Non sarebbe neppure un male in sé (negli Usa, ad esempio, gli investimenti cinesi hanno già creato 70 mila nuovi posti di lavoro e si prevede ne creeranno 400 mila entro il 2020) a patto che l’Italia torni ad essere un paese in cui un imprenditore, industriale o finanziario che sia, che parli italiano, cinese, inglese, tedesco o francese, possa trovar conveniente continuare a mantenere se non l’intera filiera produttiva almeno la parte a maggior valore aggiunto. Altrimenti sotto a chi tocca: da tempo si mormora di un interesse per Armani (oltre i 2 miliardi di fatturato già a fine 2012, +16% annuo), che piacerebbe ai francesi di Lvmh e di Kering, per Roberto Cavalli (201 milioni a fine 2013, +9,3%), che sembra nel mirino di Permira e di altri fondi di private equity, e forse per il gruppo BasicNet, proprietario dei marchi Robe di Kappa, Superga, KWay, Lanzera, AnziBesson, Jesus Jeans e Sabelt (ricavi stabili sui 435 milioni l’anno scorso), cui guarderebbero alcuni gruppi cinesi. Chi sarà il prossimo a salutare il Bel Paese?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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