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Libertà di stampa: quando i media sono sotto attacco, anche in Italia

Dal 1993 l’Onu celebra la Giornata per la libertà di stampa. Per l’istituto americano Freedom House, però, nel mondo solo il 13% gode di una stampa libera. Altri rapporti parlano di giornalisti minacciati, messi a tacere e talvolta uccisi. E non solo nei regimi dittatoriali.
A cura di Claudia Torrisi
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La sera del primo maggio la polizia egiziana ha fatto irruzione nella sede del sindacato dei giornalisti al Cairo e ha arrestato il direttore del sito anti-regime Yanair.net, Amr Badr, e un suo collega Mahmoud Elsakka. Entrambi i reporter erano stati impegnati in inchieste su sparizioni forzate e torture nelle prigioni egiziane. A distanza di due giorni, il 3 maggio, si celebra il Press Freedom Day, la giornata internazionale indetta dall'Onu nel 1993 dedicata alla libertà di stampa nel mondo per ricordare l'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo – adottata nel 1948 – secondo cui "Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Per l‘istituto americano Freedom House, però, nel mondo solo il 13% gode di una stampa libera, con una copertura di notizie politiche soddisfacente, sicurezza dei giornalisti garantita e minina intrusione dello Stato o di pressioni economiche. Il 41% del pianeta ha media parzialmente liberi, mentre il 46% vive in paesi senza un'informazione libera.

Secondo l'International Federation of Journalists, nel 2016 da gennaio ad oggi nel mondo sono stati uccisi ventisei giornalisti. Un trend costante che negli ultimi anni ha visto aggirarsi il numero intorno alle cento vittime. Stime confermate anche da Reporter senza frontiere, secondo cui sono morti mille giornalisti in dieci anni. Nel 2015 sono stati 110 i reporter uccisi, sette tra cameraman, fonici e tecnici e ventisette citizen journalist. "In ogni parte del mondo, giornalisti vengono arrestati arbitrariamente, imprigionati, torturati e sottoposti a ulteriori violazioni dei diritti umani. Vengono incarcerati o persino uccisi per aver rivolto domande che mettono in imbarazzo chi è al potere o per aver assunto una posizione che non coincide con quella ufficiale", ha dichiarato Anna Neistat, Alta direttrice per la ricerca di Amnesty International.

In occasione del Press Freedom Day, Rsf ha lanciato una campagna in cui ritrae ironicamente il brindisi di dodici capi di Stato che festeggiano le loro vittorie a scapito della libertà di stampa. Nell'elenco ci sono il premier turco Recep Tayyip Erdogan, quello venezuelano Nicolas Maduro, il cinese Xi Jinping o il russo Vladimir Putin. Annualmente l'organizzazione redige una classifica sullo stato della libertà di stampa mondiale. L'immagine che ne esce è sconfortante: granate contro redazioni in Burundi, giornalisti incarcerati in Turchia, condanne a colpi di frusta in Arabia Saudita.

L'Europa, con un punteggio di 19.8, è la regione con il livello più alto, seguita dall'Africa e dall'America, mentre agli ultimi posti ci sono Asia, Europa Orientale, Nord Africa e Medio Oriente. Nel rapporto l'Italia si è classificata settantasettesima su 180, un solo punto sopra il Nicaragua. Rsf ha scritto che nel nostro paese persistono frequenti minacce della mafia verso la stampa e si è registrato un aumento delle incursioni di forze di polizia in violazione del principio di riservatezza delle fonti giornalistiche. Secondo Mimmo Càndito, presidente in Italia di Rsf, "siamo abituati ad immaginare una repressione del diritto di parola, della libertà di pensiero con i regimi dittatoriali ed autoritari. Quando invece si parla dei sistemi democratici – pensiamo al nostro Paese – opera un altro intervento che è quello della manipolazione del potere sull’esercizio della libertà di stampa e sul libero fruire delle informazioni. Allora, quando si fanno delle classifiche come quelle di Reporters sans frontières, bisogna scavare un po’ sotto". Per quanto riguarda l’Italia, "l’anno scorso ci sono stati 528 casi di pallottole spedite per posta, minacce telefoniche, intimidazioni, aggressioni fisiche, macchine bruciate…che hanno costretto i giornalisti a sottoporsi alla cura degli agenti che ne difendono la vita. Queste cose accadono e se ne sa poco, ci dovrebbe essere una maggiore presa di posizione e di responsabilità da parte della società".

La situazione italiana è stata oggetto anche della relazione della Commissione Antimafia sui giornalisti minacciati dalle mafie, approvata lo scorso marzo all'unanimità dalla Camera, che ha evidenziato continui contatti tra mafie e media e tentativi della malavita di influenzare l'informazione. Secondo i dati dell'osservatorio Ossigeno per l'informazione, nei primi 119 giorni del 2016 ben 97 giornalisti sono stati vittime di "minacce, attentati, avvertimenti". Dal 2006 a oggi si raggiunge la cifra di 2.818, diffusi praticamente in tutto il territorio nazionale. Secondo il vicepresidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava, tra l'altro, "si conosce solo la parte più visibile, quella più raccontata, quella che passa attraverso le storie dei giornalisti più conosciuti. Alle loro spalle, però, c'è un mondo non perlustrato in cui tanti piccoli eroi fanno il proprio lavoro con fatica sempre maggiore".

Non esistono, però, solo le minacce e gli avvertimenti classici. Ci sono nuovi modi per isolare i giornalisti, portandoli all'autocensura. Uno di questi è l'uso spregiudicato delle querele. Sul punto è intervenuto recentemente anche il Consiglio d'Europa, chiedendo che i 47 Stati membri garantiscano "che le leggi nazionali sulla diffamazione non spingano i media all'autocensura e non indeboliscano il dibattito pubblico". Il segretario generale Thorbjorn Jagland ha detto che "stiamo assistendo a una preoccupante tendenza di alcuni governi ad utilizzare i processi per diffamazione a fini politici, ad applicare in modo arbitrario le leggi sulla diffamazione, e a tentativi di invertire le riforme per la depenalizzare del reato di diffamazione. Al momento di elaborare o di modificare le leggi, i governi devono tenere conto del fatto che la Corte europea dei diritti umani ha sottolineato che le condanne al carcere sono compatibili con la Convenzione soltanto in casi estremamente eccezionali, in particolare quando c'è stata violazione di altri diritti fondamentali, ad esempio nel caso di discorsi di incitamento all'odio o alla violenza". Inoltre, ha concluso "è essenziale che le sanzioni previste nel diritto civile per la diffamazione siano proporzionate e non possano essere utilizzate in modo abusivo per imbavagliare i mass media".

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