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Le ultime parole di Pasolini prima di morire

Il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini viene ucciso brutalmente all’Idroscalo di Ostia. Una morte violenta come lo era stata tutta la sua vita da intellettuale: una violenza poetica, profetica, quella di Pasolini, la violenza della verità. Le ultime parole, le ultime interviste e Salò, quel suo ultimo terribile film, hanno lasciato un testamento intellettuale importantissimo. Di più: a distanza di quarant’anni lasciano ancora aperte tante domande, dubbi certi su quello che Pier Paolo intendesse quando diceva “siamo tutti in pericolo”.
A cura di Federica D'Alfonso
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Nell'ottobre del 1966 Pasolini si trova a New York per partecipare ad un festival cinematografico, dove presenterà "Uccellacci e uccellini". In un articolo apparso sulla rivista "Europeo" Oriana Fallaci, con quell'intensità che caratterizzava ogni sua intervista, descrive un Pier Paolo piccolo, fragile, vestito come il ragazzo di un college: un pullover color nocciola, pantaloni in velluto a coste dello stesso colore, un po' stretti, e scarpe di camoscio con la gomma sotto. Ad un primo sguardo non sembrava un uomo di quarantaquattro anni: è un tipo agile, svelto, ma allo stesso tempo suggeriva l'idea di un uomo consumato. Consumato dai suoi mille desideri e dalle sue disperazioni: bastava guardare il viso alla luce naturale del giorno per vedere un volto scavato, le guance scarne, gli occhi liquidi e dolorosi, gli occhi di chi ha visto troppo. Gli occhi di chi sa. A quell'epoca Pasolini aveva già realizzato due dei capolavori più intensi che la storia del cinema ricordi: Accattone, uscito nel 1961, e Mamma Roma, del '62. Ha già scandalizzato l'Italia con i suoi Comizi d'Amore e conquistato la critica con Il Vangelo secondo Matteo, entrambi del '64. Passeranno alcuni anni prima di vedere compiuta la famosa Trilogia della vita, composta dal Decameron, I racconti di Canterbury e I fiori delle Mille e una notte, meno di dieci prima della sua scomparsa prematura. Ma in quell'intervista del lontano '66 la Fallaci già diceva: "Siamo in molti a pensare che se non la smette ce lo troviamo con una pallottola in cuore o con la gola tagliata", anni prima che questo timore diventasse una pagina oscura di cronaca.

"Siamo tutti in pericolo": le ultime parole

Pier Paolo Pasolini nel 1966
Pier Paolo Pasolini nel 1966

Le ultime testimonianze raccontano un Pasolini nervoso, pessimista, un Pasolini più che mai inquieto nelle proprie riflessioni. Anche il viso, in quelle ultime immagini, sembra più magro, gli occhi più duri. Quasi profeticamente, sceglie lui stesso di intitolare un'intervista con Furio Colombo, risalente al pomeriggio del 1 novembre, "Siamo tutti in pericolo". Promette al giornalista di rivedere con calma alcune domande cruciali, e di inviargli le note per la mattina seguente: non riuscirà mai a farlo.

Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c'è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c'è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale.

Per Pasolini non c'era nulla che non fosse "politico". Dunque anche ogni suo gesto, ogni parola e ognuna delle inquadrature di qualsiasi suo film erano pericolosamente politiche. Come pericoloso e politico è stato quell'ultimo film, "Salò o le 120 giornate di Sodoma". Le ultime interviste rilasciate pochi giorni prima dell'assassinio parlano tutte, inevitabilmente, di quel film: in quei giorni Pasolini finiva di girarlo e lo montava, in mezzo ad una polemica immensa tenuta a freno solo dall'immensa riservatezza con la quale egli girava ogni sua pellicola.

Un occhio che non sa vedere, o che non vuole vedere, la disarmante razionalità che guida la ricerca pasoliniana non capisce come Salò non sia altro che una trasposizione poetica di quello che gli accade intorno: il film da fastidio, e una versione ufficiosa dei fatti, quella indagata dalla famiglia Pasolini e da giornalisti come la Fallaci dopo la morte dell'autore, vuole che sia stato proprio quel film ad essere il pretesto per il massacro all'Idroscalo: si parla di alcune pizze del film rubate (Pasolini infatti usò le scene di riserva, quelle girate da altre angolazioni, per montarlo), e del fatto che Pier Paolo quella sera fosse ad Ostia per trattare con i ladri e non, come vuole l'ufficialità, per intrattenersi con Pelosi.

Salò o le 120 giornate di Sodoma
Salò o le 120 giornate di Sodoma

Ma come in tutto quello che riguarda Pasolini, la spiegazione non può fermarsi qui: Salò e le pellicole rubate non sono nient'altro che il capo di una matassa aggrovigliata ed inquietante. Questa matassa si chiama "Petrolio". In quell'ultimo periodo Pasolini sta lavorando al suo romanzo inchiesta, e s'imbatte nel nome di Enrico Mattei, fondatore dell'Eni morto misteriosamente nel 1962: tutto ha un senso, se non si volta la testa dall'altra parte come le marionette. Salò, l'Idroscalo, Pelosi, un massacro rabbioso e folle, e poi la politica, le indagini che forse hanno portato Pasolini a scoprire un po' troppo, la certezza che qualsiasi cosa avesse scoperto, l'avrebbe gridata a gran voce: ecco perché tutto, anche la morte in Pasolini, è politica.

Salò o le 120 giornate di Sodoma: l'ultimo film

fotogramma da Salò o le 120 giornate di Sodoma
fotogramma da Salò o le 120 giornate di Sodoma

Parlare dell'ultimo film vuol dire inevitabilmente parlare di un Pasolini cambiato, di un'intellettuale che sta vivendo un profondo travaglio interiore e che intorno a sé vede restringersi pericolosamente lo spazio di azione. Nella pellicola le vicende ispirate all'opera del marchese de Sade vengono ambientate fra il '44 e il '45, nel nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica di Salò. La terribile narrazione si sviluppa seguendo lo schema dantesco dell'Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue, sono i capitoli agghiaccianti attraverso i quali Pasolini porta in scena la sessualità perversa dell'umana specie. Il sesso è un tema che fin dalla cosiddetta "Trilogia della vita" ossessiona il Pasolini regista, quale strumento fondamentale per indagare il rapporto dell'uomo con l'altro uomo, e di questo, con la società. Ma nelle sue ultime parole, nelle sue ultime riflessioni, Pasolini sembra aver abbandonato quella visione serena e favolistica della vita che caratterizzava gli altri film: in un articolo apparso postumo, scritto negli ultimi mesi del '75, Pasolini usa parole dure verso quella visione delle cose veicolata dalla Trilogia della vita:

Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. E per tre motivi: primo, la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la "realtà" dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico. Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia.

Ecco perché Salò, ecco il motivo di quel testamento intellettuale che Pasolini ha fatto appena in tempo a lasciare. Le 120 giornate di Sodoma è ancora oggi uno dei film più difficili da digerire. A distanza di quarant'anni è ancora forte l'istinto di alzarsi e spegnere lo schermo. Ci si trova di fronte un Inferno, nel vero senso dantesco della parola, in cui violenza e perversione comandano e non lasciano spazio a nient'altro, a nessuna possibilità di redenzione. Un Pasolini violento, certo, ma come nella poesia, una violenza più simbolica che realmente fisica: nelle scene orgiastiche, in quelle di coprofagia e di violenza di gruppo c'è un'unica grande allegoria, quella del potere, del totalitarismo che domina la società contemporanea attraverso la cieca violenza del sesso. Quella stessa violenza di cui lui stesso si sente costantemente vittima.

Ecco il guaio, l'ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo…È come uno che scende all'inferno. Ma quando torno (se torno) ho visto altre cose, più cose. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.

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