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Opinioni

La vittoria di Trump è un trauma (e no, non c’è nulla da ridere)

Trump incarna tutto ciò che molti di noi hanno sempre detestato: ricco senza meritarselo, espressione del capitalismo finanziario e arrogante, misogino, razzista, autoritario, sprezzante delle regole, intollerante con le minoranze, egoista e rozzo. È l’esempio da fare per sentirsi una persona moralmente migliore. E la sua vittoria mi preoccupa, tremendamente.
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C’è una frase, detta e ripetuta decine di volte in questi ultimi anni, che credo spieghi bene la sensazione di tante persone in queste ore. “Non ho paura di Donald Trump in sé, ho paura del Donald Trump in me”. Un pensiero concreto, per chi abbia assistito a questa incredibile campagna elettorale per le Presidenziali Usa dall’altra parte dell’Oceano Atlantico e al suo tremendo epilogo. Quando l'impensabile è diventato prima possibile, poi reale.

Trump, è stato scritto più volte, incarna tutto ciò che molti di noi hanno sempre detestato: ricco senza meritarselo (del resto, c’è ricchezza davvero meritata?), espressione del capitalismo finanziario e arrogante, misogino, razzista, autoritario, sprezzante delle regole, intollerante con le minoranze, egoista e rozzo. È l'esempio da fare per sentirsi una persona moralmente migliore. Ma è anche altro.

C'è una puntata dei Simpson (citazioni colte, stavolta) in cui Telespalla Bob scende in politica col partito repubblicano e tenta di truccare le elezioni; smascherato, pronuncia delle parole che suonano più o meno così: "La verità è che in cuor vostro sognate tutti di essere governati da un repubblicano che con pugno di ferro metta a posto gli immigrati e vi abbassi le tasse, che si incarichi di fare il lavoro sporco che desiderate ma che non potete ammettere a voi stessi di volere. È questa la verità che non siete in grado di sostenere". Ecco, il Trump in me. Il Trump in noi. Che dovremmo tenere a bada, a ogni costo.

Però, l’idea che qualcuno possa essere così folle da fidarsi di una persona simile mi sembra incredibile, irreale. Berlusconi? Su, su, non diciamo cazzate.

Il risultato di Trump è la dimostrazione che non ci stiamo capendo molto. Soprattutto quando ripetiamo la solita litania sul "populismo che si sconfigge con il buongoverno, con una politica in grado di fare le riforme, con la rinuncia all'austerity, con la creazione di posti di lavoro". La realtà è che la "gente" è incazzata e non abbiamo la minima idea del perché. La disuguaglianza reddituale, lo squilibrio sociale, il modello di società iniqua che abbiamo costruito, certo (anche se sono certo che quando Piketty dice che "l’attuale tendenza nella distribuzione del reddito non è compatibile con la democrazia" intenda altro). Ci sono ragioni concrete, tremendamente valide, che hanno spinto il ceto medio impoverito e una consistente fetta di elettorato (bianco, per la stragrande maggioranza) a fidarsi di Donald Trump. Ci sono ragioni "politiche", che hanno portato alla sconfitta del candidato che più di tutti ha finito con il rappresentare l'estabilishment, il passato, la burocrazia. E non c'è motivo per cui la vittoria di Trump non debba comunque essere considerata come una prova di democrazia del popolo statunitense. Certo, è triste che l'ultimo argine al "male" fosse un sorriso finto e costruito, il "meglio" che il campo progressista sia stato in grado di opporre alla destra populista.

Ma c'è anche un aspetto per così dire più profondo, nascosto. Ed è quello che mi inquieta.

“This is an era of anger and populism”, ha scritto qualcuno. Ma la rabbia è anche la forma più comune con cui cerchiamo di nascondere la nostra insicurezza, la perdita di riferimenti, l'alienazione. E l'insoddisfazione che nasce dallo scontro fra la limitatezza della nostra condizione e le illimitate possibilità che un certo capitalismo ci sbatte in faccia ogni giorno.

Baumann scriveva qualche tempo fa: “Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale”. Ogni appiglio si è lentamente dissolto, giorno dopo giorno, senza che "noi" ce ne rendessimo conto. Ci siamo svegliati confusi e disorientati, senza un vero posto nel mondo. Abbiamo cercato a lungo una risposta, nella società, nella politica, anche sui media. Abbiamo trovato solo abbozzi di pensiero e persone chiuse nel loro guscio, a protezione della loro confort zone. Le elite, le classi dirigenti ci hanno visto come un pericolo, hanno provato a rabbonirci e contemporaneamente a marginalizzarci, mentre le leve del controllo dei processi economici sfuggivano dalle loro mani. I media non hanno capito nulla, gli intellettuali hanno guardato con paternalismo e sufficienza a questo flusso indistinto, che ha trovato canali nuovi per esprimersi, strumenti polarizzanti per eccellenza. A sinistra qualcuno ci ha guardato con simpatia, pensando che fossimo una nuova classe sociale: ma noi non siamo una classe, non sappiamo chi siamo, non abbiamo idea di cosa ci accomuni oltre all'assenza di riferimento; e al vuoto identitario si è sommato il vuoto ideologico, l'assenza di un pensiero in grado di leggere la nuova realtà.

E allora? Allora, “la paura generata da questa situazione di insicurezza, in un mondo soggetto ai capricci di poteri economici deregolamentati e senza controlli politici, aumenta, si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite”. E ci spinge a cercare un obiettivo su cui concentrarci, uno semplice, a portata di mano. Trump ce lo indica: la guerra agli ultimi, sintesi fra deresponsabilizzazione, vittimismo esasperato e voglia di rivalsa, individuale e collettiva.

Che gli ultimi siano i messicani, i migranti, i rom in fondo ha poca importanza.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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