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La strana morte di Giorgio Pedone, il poliziotto che scoprì la ‘Ndrangheta padana

Nel 1983 stilò il primo rapporto che denunciava la presenza di clan facenti capo alla ‘Ndrangheta, nella bassa Lombardia. Otto anni dopo il suo corpo verrà ritrovato in una cascina di campagna con la testa trapassata da un proiettile. La sua morte fu archiviata come suicidio e non si indagò mai su altre piste.
A cura di Angela Marino
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Era sbarcato nella fredda e nebbiosa Vigevano nel 1977, insieme alla moglie e alle figlie. Aveva dovuto sradicare la famiglia per stabilirsi nella cittadina pavese a due passi dal Ticino dove lo avevano portato la sua ambizione, la sua professionalità e quella determinazione da uomo del Sud che non lo aveva mai fatto arretrare di fronte agli ostacoli. Lì Giorgio Pedone avrebbe trascorso gli ultimi 14 anni della sua vita, nel commissariato della cittadina pavese, dove, nominato vicequestore a soli 38 anni, avrebbe passato le sue giornate a stanare le mafie che si erano stanziate nella bassa Lombardia.

La morte

A 53 anni era arrivato il trasferimento a Trieste, disposto in concomitanza con un piccolo scandalo familiare. Il 14 agosto 1991 si sarebbe svolta, alle 11 in municipio, la cerimonia di consegna della ‘scarpina d' oro', simbolo della città, un piccolo tributo ai 14 anni di dedizione al comune. Tra lo sconcerto generale, Giorgio Pedone mancherà clamorosamente quell'appuntamento. Il vicequestore si trovava nel cortile della cascina Dojola, a Gambolò, a pochi passi dal santuario del Crocifisso. Un contadino avrebbe trovato il suo corpo riverso su un telo, con un buco in fronte. A sparare era stata la sua 357 Magnum, rigorosamente riposta nella fondina.

Una ‘storia semplice'

"Suicidio" dissero gli inquirenti: "suicidio" riportarono i giornali, attribuendo quel gesto disperato alle recenti vicende familiari. Lo ‘scandalo' consisteva nel fatto che una delle due figlie di Pedone, che all'epoca lavorava come spogliarellista, aveva dichiarato alla stampa, in una intervista, di essere la figlia del vicequestore e aggiungendo che suo padre non disapprovava la sua scelta. Una circostanza che mal si addiceva – secondo certa stampa – al ruolo di custode della giustizia e al contegno integerrimo del vicequestore e che avrebbe portato alla richiesta del suo trasferimento.

“L’assassino era al suo funerale”

La famiglia Pedone, però, non credette neanche per un momento alla ricostruzione del suicidio. Quell'uomo forte e determinato non si sarebbe tolto la vita e meno che mai per un motivo del genere. Alcuni particolari della dinamica confermano la famiglia in questo convincimento: l'arma che lo ha ucciso è stata riposta dove la teneva sempre, nella fondina. Come è possibile che si sia sparato e l'abbia rimessa via? Ciononostante l'indagine viene archiviata piuttosto in fretta. Poca attenzione riceve una una lettera anonima ricevuta dal quotidiano locale ‘La Provincia Pavese', che recita: "Pedone è stato assassinato e l'assassino era ai suoi funerali".

L'uomo che scoprì la ‘Ndrangheta padana

La storia di Pedone fu assimilata a quegli ultimi accadimenti della sua vita e l'ipotesi che la chiave di quella misteriosa morte avrebbe potuto essere trovata nell'attività investigativa del vicequestore fu scartata. Eppure era a Pedone che si doveva l'intuizione che esistesse una ramificazione lombarda della temibile ‘Ndrangheta calabrese. È del 1983 il primo rapporto che fa riferimento ai clan. "Com’è noto – scriveva Pedone – in Vigevano fin dal 1965 si è insediata, fra gli altri nuclei di famiglie provenienti dalla provincia di Reggio Calabria anche quella facente capo a Giovanni Cotroneo, il quale in questi venti anni ha avuto maniera di consolidare la sua “autorità” attraverso una rete capillare di suoi conterranei venuti dal Sud in cerca di lavoro, ma disposti anche a ricambiare un piacere, qualora chi lo chiedeva era in grado di assicurare un minimo di guadagno, protezione e di rispetto". In particolare Pedone si concentrò sugli affari del clan Valle, che grazie al suo lavoro, 31 anni dopo subirà la prima condanna per associazione mafiosa e usura.

Il giallo della morte di Pedone

Sebbene fosse in procinto di lasciare l'incarico, nell'ultimo periodo della sua vita Pedone aveva cominciato a indagare su alcune sette sataniste della zona. Proprio nella stessa Vigevano dove negli ultimi trent'anni si era distesa l'ombra lunga della malavita calabrese, con i suoi oscuri legami con la cosiddetta massoneria nera, la morte di quell'uomo di Stato che aveva vissuto per il lavoro non smette di suscitare interrogativi.

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