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Opinioni

Il dilemma di Renzi: come fermare l’avanzata del M5S

Dopo la sconfitta alle Comunali, il Presidente del Consiglio è costretto ancora una volta a una dimostrazione di forza: presentarsi come l’unico argine all’avanzata del Movimento 5 Stelle. Già, ma con quali strumenti?
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C’è qualcosa di più oltre il sorriso di Chiara Appendino e lo sguardo compiaciuto di Virginia Raggi a preoccupare il Presidente del Consiglio. È quella sensazione, tra il fastidio e la preoccupazione, di doversi caricare di nuovo tutto sulle spalle. La consapevolezza di essere l’unico argine al dilagare dei consensi in favore del Movimento 5 Stelle. Che, con il passare dei giorni e l’avvicinarsi del turno di ballottaggio a Roma e Torino, è diventata sensazione di impotenza, di incapacità materiale di invertire un trend. E che si è concretizzata come certezza al momento dei risultati, quando sono emerse in tutta la loro evidenza anche le lacune del suo presunto alter ego, Matteo Salvini, ancora lontano dall'essere leader del centrodestra e spesso spalla (in)consapevole del Movimento 5 Stelle.

Non si ferma il vento con le mani, diceva Renzi ai tempi della Leopolda. E quel concetto continua a ronzargli in testa, con insistenza, fino a insinuare il peggiore dei dubbi: ma vuoi vedere che l’Italicum finirà per regalare il Paese ai 5 Stelle?

Ecco, il ballottaggio maledetto, prima di tutto. Per anni la legge a doppio turno è stata la dimensione ideale del centrosinistra, con il caro vecchio “voto utile” a garantire il consenso di delusi e sfiduciati. L’incubo della vittoria della destra, vi dice niente? Da qualche tempo a questa parte, al ballottaggio i democratici rimediano brutte figure proprio quando conta di più, subiscono rimonte clamorose, non riescono quasi mai a confermare i voti del primo turno. Ora però la responsabilità è in gran parte di Renzi, o meglio, del renzismo. Se passi mesi a ripetere che la scelta è tra "noi e loro", tra "l'Italia cui basta un sì" e quella "di chi dice sempre no", se non perdi occasione per delimitare il campo del bene e del male, se scegli una linea di comunicazione tremendamente (e spesso inutilmente) aggressiva, se fai un uso spregiudicato e disinvolto dei mezzi di comunicazione a te più vicini, se a decine del tuo stesso partito cadono sotto i colpi del "fuoco amico", la logica conseguenza è il compattamento delle opposizioni di fronte a una scelta biunivoca.

Il voto utile è diventato quello contro il nemico comune, il PD di Renzi.

Già, il partito. Un problema enorme, allo stato delle cose. “Da subito, ho capito che c'era una montagna da scalare. E dovevo riuscirci da solo. Il partito, purtroppo, più che un risorsa, s’è rivelato una tragica zavorra […] Mi ascoltavano. Poi mi dicevano: senti, nun è na' cosa personale. È che tu rappresenti il Pd. Ce dispiace, ma nun te votamo”. Parole e musica di Roberto Giachetti, che ha scelto consapevolmente di andare a schiantarsi a Roma, assumendosi fino in fondo la responsabilità della renzianissima scelta di defenestrare Marino in malo modo.

Quello che Giachetti non dice è di chi è la responsabilità. Delle passate gestioni del partito, a Roma e non solo, certamente. Ma anche dello stesso Renzi, che ormai ha le redini del partito da oltre due anni e ha esaurito il bonus delle giustificazioni valide. In primo luogo dal punto di vista organizzativo: da Roma a Napoli, passando anche per Milano (Torino è oggettivamente un caso a parte), per la Calabria, fino ad arrivare ai Giovani Democratici, invocare la resa dei conti, il "lanciafiamme", suona un po' ridicolo e in ogni caso arriva con ampio ritardo. La verità è che i renziani sono entrati a gamba tesa, ma invece di colpire il malaffare, le clientele, le collusioni, hanno colpito le caviglie dei propri compagni di squadra, quelli della minoranza (che peraltro hanno restituito il favore con gomitate e colpi a gioco fermo). Il disastro di Roma ne è l'esemplificazione, il caos di Napoli la conferma annunciata.

Come se ne esce, allora? Renzi ci sta pensando da tempo e forse ha già deciso: superare la forma partito, investendo ancora di più sulla figura del leader carismatico e lavorando alla formazione di una nuova classe dirigente. L'occasione, per paradossale che possa sembrare, gli è offerta proprio dal referendum sulla Riforma della Costituzione, che Renzi ha personalizzato e caricato di un valore assoluto. Una scelta valida sia strategicamente che politicamente. I comitati per il sì rappresenteranno infatti le nuove cellule del movimento renziano, con la possibilità di lavorare senza legacci e zavorre, di formare una nuova classe dirigente e superare a pié pari l'opposizione interna. Un microcosmo che abbia lui come unica stella, come unico riferimento politico e ideologico. Una soluzione più semplice di complesse e controproducenti alchimie politiciste (ciao Verdini, insomma) e meno laboriosa di una riflessione ideologica che rimetta in discussione i cardini dell'intera formazione politica.

Il problema semmai, sarà vincerlo questo referendum. Fino a qualche settimana fa lo scenario sembrava sorridere al Presidente del Consiglio: la possibilità di andare al voto avendo contro un fronte frastagliato ed eterogeneo (da D'Alema a Grillo, passando per Fassina e Salvini, Meloni e Berlusconi, Casa Pound e No Tav) era l'occasione per ribadire una alterità di fondo, un pensiero stabile e rassicurante; era il contesto ideale per imporre la narrazione del "cambiaverso", del Paese che si rimette sulle gambe e ha finalmente acquisito stabilità e fiducia. In tal senso, da Torino e Milano, ma non solo, è arrivato uno schiaffo dolorosissimo: a questa storia credono in pochi.

“C’è una difficoltà profonda: un pezzo della società trova una contraddizione tra il racconto del Pd e la vita quotidiana", dice Roberto Speranza, centrando in pieno il punto. "Io capisco l'esigenza di ogni premier di esibire ottimismo e di inoculare fiducia, ma quando il distacco tra gli illusionismi e la realtà diventa troppo ampio, l'effetto è quello opposto. Si insinua cioè il forte dubbio, in molti, di essere presi per i fondelli", prova a spiegare Alessandro Gilioli su L'Espresso. E Stefano Folli su Repubblica rimprovera l'assenza di una "una visione non solo propagandistica dell’Italia di oggi e del suo disagio, sullo sfondo di una ripresa economica troppo fragile e di ingiustizie percepite come intollerabili".

Considerazioni condivisibili, cui aggiungerne una ulteriore. Quella sulla piattaforma identitaria, che è poi anche un modo per capire quale narrazione e per chi.

“Il Pd ha bisogno di un'identità di sinistra più forte, che Renzi ha spostato verso il centrodestra, ed ha bisogno di un radicamento sociale nel mondo del lavoro più forte di questo, ed anche nella disoccupazione, nelle pensioni minime, nelle persone emarginate. Questa è la nostra base sociale, non è Marchionne”, dice Enrico Rossi, governatore della Toscana e candidato alla segreteria del Partito Democratico, delimitando l’orizzonte entro cui la minoranza del partito intende condurre la sua battaglia. Finora Renzi ha agito diversamente, riuscendo a “svuotare” il bacino elettorale moderato con misure ad hoc, scegliendo di presentare il PD come forza responsabile e “unica alternativa” al populismo di destra e di sinistra. L’idea era di raccogliere i cocci delle formazioni centriste e tutto l’elettorato moderato in uscita da Forza Italia (quello che non potrebbe mai seguire Salvini e Meloni, per capirci). La base sociale del nuovo contenitore doveva essere costituita dal “ceto medio” (eh), da una specie di nuova borghesia allergica al populismo e da parte dell’elettorato storico del centrosinistra: dipendenti statali, pensionati e giovani progressisti. L’equilibrio cercato da Renzi era precario quasi per definizione: politiche per la famiglia e per il “ceto medio” (sempre tra virgolette) in campo economico, una strizzata d’occhio a sinistra sul campo valoriale (posizione su emergenza migranti, diritti civili) e la promessa di nuovi interventi per il contrasto alla povertà.

Qualcosa non ha funzionato, però. E il castello di carte costruito da Renzi ha cominciato a vacillare, paradossalmente sotto i colpi della stessa propaganda con il quale era stato costruito. Per restare agli ultimi giorni di campagna elettorale, basti solo considerare la presa che ha avuto la mezza bufala della restituzione del bonus degli 80 euro da parte di un milione e mezzo di italiani o il modo in cui è stata accolta l’ipotesi di un prestito pensionistico per chi scelga di ritirarsi prima dal mondo del lavoro: schegge impazzite che la macchina comunicativa renziana non è riuscita a controllare, come era successo sulla riforma della scuola, che aveva alienato anche le simpatie di un’altra parte di elettorato storico. Di contro, altre operazioni non hanno garantito il ritorno sperato: il No Imu day, ma anche la "fine dei contratti a progetto", la legge storica sulle unioni civili o quella sul servizio civile, indirizzate evidentemente all'elettorato giovane.

Capire a chi si parla è però essenziale per Renzi e i suoi. Che non possono non aver notato la distribuzione geografica dei consensi, il crollo nelle periferie, nei quartieri disagiati, ma anche nella profonda provincia (il PD perde roccaforti storiche, anche in Emilia e Toscana), in quelle aree del Paese dove è più ampia la distanza dai centri nevralgici del potere, dell'economia, della cultura.

Il problema è che, anche volendo leggere la contesa con le vecchie coordinate, Renzi a sinistra trova un muro e a destra un campo affollato e rissoso.

A queste e altre sollecitazioni, la sensazione è che Renzi risponderà nel modo più semplice e immediato: rilanciando una sfida personale e (in parte) generazionale, calcando la mano sulla crociata contro i populismi e al tempo stesso la vecchia politica, estremizzando ancora di più le contrapposizioni. Con una consapevolezza in più: ora è solo davvero.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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