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La storia del futuro sarà sempre più pubblica e digitale

Quale sarà la funzione dello storico di professione con l’avanzare della rivoluzione digitale? L’autorevolezza del ruolo risiede sempre più nella capacità di divulgare le fonti digitali (accettando il confronto con il pubblico interconnesso), di esaltare la memoria locale e familiare (connessa alla globalizzazione) e di tutelare le informazioni digitali contenute in software obsolescenti (per tramandarle agli studiosi del futuro).
A cura di Marcello Ravveduto
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Che cosa è la storia pubblica e digitale? La potremmo definire una pratica di conoscenza storica sviluppata attraverso le fonti e i documenti digitali nell’era del web 2.0, partecipativo e collaborativo. Internet ha abbattuto lo steccato che divideva la storia scritta dagli accademici e le azioni pubbliche di riconoscimento della memoria collettiva, dando luogo a forme di ego-narrazioni riguardanti il passato.

Sempre più spesso il sapere scientifico di intere schiere di professori universitari viene messo in discussione dalle opinioni personali di donne e uomini liberatisi, grazie alla Rete, dal timore reverenziale verso l’Accademia. Una qualsiasi riflessione storiografica, lanciata nella rete dal professore di turno (costata anni di studio “matto e disperatissimo”), rischia di essere sminuita da un lato dalla memoria personale (fallace e schierata) dei protagonisti sopravvissuti, che si ergono a giudici implacabili; dall’altro dalla percezione collettiva che quell’evento, nel bene e nel male, ha segnato sul corpo della nazione.

Non c’è autorevolezza che tenga, né possibilità di far valere la propria conoscenza nella disputa poiché ognuno entra in gioco portando il suo contributo, che non è solo critico o polemico ma anche integrativo, magari avvalendosi di documenti digitalizzati. Viene saltata a piè pari la mediazione dello storico inteso come passatore di una specifica conoscenza disciplinare.

Come ha scritto Serge Noiret: «Un passato che diventa pubblico crea certamente, per chi fa storia come professione, il pericolo di vedere gli specialisti… non più dominare le mutazioni digitali a sufficienza e, d’altro canto, di vedere scemare la complessità della ricerca di fronte a una selezione di documenti già noti o comunque privi di valore innovativo per la ricerca “alta”».

Se gli storici non imparano a utilizzare le infrastrutture cibernetiche saremo circondati da narrazioni svuotate di senso e senza il dovuto distacco o la necessaria analisi. La Storia, come già sta accadendo, sarà preda della memoria individuale e familiare, le cui fonti non sono più gli archivi nazionali, locali o i media audiovisivi ma la cassapanca chiusa in soffitta in cui sono custoditi oggetti che possono essere condivisi con il pubblico interconnesso. «Il passato di ognuno in rete non è più distante e storicizzato, ma diventa emozione nel continuo presente, appiattendo i tempi storici sull’oggi».

Nell’ambiente virtuale tutto è in real time. Quando si accede a un social network si ha davanti un wall, una “bacheca” continuamente aggiornata. Un post dopo un’ora non è più rintracciabile, schiacciato da migliaia di altri post che lo hanno reso “passato”. Se dopo un’ora un’informazione è già coniugata al passato, e il futuro deve ancora venire, siamo di fronte ad un tempo “sempre presente”.

Chi fa il mestiere di storico non può eludere il confronto con la civiltà informatica e la tecnologia del web 2.0; non può rinunciare ad un rapporto diretto con un’audience generalista che sente forte il bisogno di una narrazione pubblica e condivisa (anche con lo sharing online). Se è vero che si è diffuso l’uso pubblico della memoria è anche vero che non si è radicato un “senso pubblico” della storia.

Ci vuole, quindi, una nuova generazione di “storici pubblici digitali” capaci di inquadrare scientificamente la documentazione digitalizzata e sparsa nella Rete. Il digital public historian non può essere solo un divulgatore o un “passatore di storia” ma deve anche essere un “mediatore pluricodicale” che applica al passato le tecnologie, le metodologie e i linguaggi del presente. Si muove in un contesto in cui la rivoluzione digitale ha cambiato il rapporto tra teoria e pratica, tra cultura scientifica e cultura materiale, tra università e società, tra scienze umane e scienze tecnologiche, tra ricerca scientifica e didattica, tra storia e memoria, tra singole discipline e interdisciplinarietà, tra divulgazione e pubblicistica, tra istituzioni e territorio, tra imprese e consumatori, tra locale e globale, tra analogico e digitale, tra reale e virtuale e, naturalmente, tra passato e presente.

L’assenza di questa figura professionale comporterà, sempre più frequentemente, l’incontro diretto delle comunità locali con la storia, configurando un localismo dall’orizzonte cieco, incapace di leggere i processi di mutamento globale nella loro complessità.

Prendiamo ad esempio il gruppo pubblico su Facebook intitolato “Comune di Aspra. Album di una comunità”. Aspra è la frazione marina di Bagheria (Pa). La descrizione del gruppo ha un preciso intento campanilistico che travalica lo steccato locale grazie all’uso memoriale del social network. Leggiamola: «Comune per noi vuol dire comunità…e il nostro album fotografico ci rappresenta. Dal punto di vista politico sociale, notiamo che con le nostre foto si sta sviluppando il senso di appartenenza al territorio; scrutando le vecchie e ingiallite foto, notiamo i vari aspetti del passaggio inesorabile del tempo, e come quei luoghi si devono salvaguardare. Mantenendo la bellezza naturale, rispettando il bene comune. La nostra iniziativa è stata oggetto partecipante alla pubblicazione di un libro e gli iscritti sono aumentati a centinaia, e grazie a tutti voi stiamo creando un archivio consultabile in qualsiasi momento, la nostra storia il nostro passato che i giovani possano conoscere per un futuro migliore».

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Il motore dell’iniziativa e la realizzazione, bottom up, di un “social archive” di foto digitalizzate dagli apsresi, vicini e lontani, e connessi in un network della memoria. Le immagini sono estratte da diversi contesti familiari con la presunzione di ricostruire un passato che è volutamente parziale, dietro al quale si nasconde un vena di malinconia per i tempi andati, considerati migliori del presente, sui quali si fa leva per costruire un futuro migliore.

Cercando in rete ho trovato ilgiornalediaspra.net (il cui ultimo aggiornamento risale al 2011) in cui un tal Michele Balistreri si chiede (nel 2007) se dopo 181 di vita in comune con Bagheria non sia giunto il momento di separarsi e costituirsi come comune indipendente: «da sempre ci troviamo di fronte ad un matrimonio fallito e, nella realtà, siamo come i separati in casa (pacificamente)». Il sito in questione è tutto un fiorire di microstorie che esaltano il vissuto della borgata: gli apsresi nel mondo, i vip che salutano Aspra, i video che mostrano vicende e tradizioni lungo tutto il secondo Novecento e l’immancabile storia del luogo con i suoi personaggi famosi. Insomma come se, pur usando Internet, il mondo avesse dei confini coincidenti con la frazione di Bagheria.

La storia, con le sue molteplici implicazioni, scompare riducendosi a un coagulo di sentimenti intimistici usati per presentificare un passato che forse non è mai esistito o è puramente immaginario. Basta vedere le foto postate sul gruppo Facebook: ritratti di genitori, fratelli, sorelle, parenti, ma anche paesaggi e luoghi di un tempo andato in cui l’essere di Aspra ha un valore assoluto. L’Italia, e persino Bagheria, sono sullo sfondo come un incidente di percorso che non sembra appartenere a quelle donne e quegli uomini immortalati con gli abiti della festa.

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Eppure questa voglia di raccontare i ricordi individuali e familiari, raggiunta la visibilità della rete, proietta il locale in una dimensione globale. Il che rende necessaria un’opera di mediazione pubblica nel contesto digitale per fronteggiare l’avanzata inarrestabile della memoria privata sulla storia. Ma testimoniano anche un profondo bisogno di tutela della comunità dinanzi al progredire della globalizzazione. Questa è la chiave di volta di chi si cimenta con la storia pubblica digitale: saper comunicare, descrivere, interpretare e mostrare le esperienze locali come riduzioni del divenire globale.

Il digital public historian non può sfuggire, perciò, al monito di Vinton “Vint” Cerf, vicepresidente di Google, secondo cui è fondamentale salvaguardare e recuperare testi, fotografie, video che parlano delle nostre vite, ma anche documenti legali, testimonianze, informazioni preziose per chi – nel secolo prossimo o in quelli a venire – cercherà di capire qualcosa di noi e della nostra storia: «…via via che i sistemi operativi e i software vengono aggiornati, i documenti e le immagini salvate con le vecchie tecnologie diventano sempre più inaccessibili. Nei secoli che verranno, gli storici che si troveranno a guardare indietro alla nostra era potrebbero trovarsi davanti a un “deserto digitale” paragonabile al Medioevo, un’epoca di cui sappiamo relativamente poco a causa della scarsità di documenti scritti».

Una delle incombenze per gli storici del futuro sarà la capacità di non far “marcire” e rendere interpretabili i software attuali che contengono notizie indispensabili per chi, nei secoli a venire, vorrà studiare la nostra Era. Oggi la sfida è predisporsi a tutelare un patrimonio di informazioni digitali che rischia di evaporare perché nessuno lo ha salvato e, anche se fosse a disposizione dello studioso, potrebbe non essere interpretabile perché realizzato con un software “secolare” di cui nessuno conosce la chiave d’accesso.

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