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La sfida anacronistica della Rai contro Youtube

La decisione di via Teulada mostra il provincialismo digitale della nostra classe dirigente. Il patrimonio audiovisivo dell’azienda pubblica è un bene comune nazionale che non può essere gestito con una strategia protezionista unicamente tesa ad aumentare gli introiti pubblicitari.
A cura di Marcello Ravveduto
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Il provincialismo digitale italiano si era già manifestato durante il Governo Letta con la vicenda delle Web tax. Una furbata per tassare la raccolta pubblicitaria delle multinazionali esigendo le quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale. In gergo tecnico si chiama "aportionment": i grandi player della rete, con sede fiscale all'estero, avrebbero dovuto pagare le tasse per i ricavi prodotti nel nostro Paese.

L’obiettivo dichiarato sono gli 11 miliardi di euro dell’e-commerce che per l’80% sfuggono al controllo del Fisco. Il web, secondo questa visione, è un prolungamento virtuale del territorio nazionale per il quale devono valere le stesse regole dello Stato italiano: si applicano, ai soggetti socioeconomici globalizzati per eccellenza, i confini della geopolitica novecentesca.

La nostra classe dirigente ancora non si è resa conto che l’era digitale sta smaterializzando l’universo spazio temporale: nel lungo periodo le condizioni di sviluppo saranno condizionate dalle infrastrutture cibernetiche sovranazionali senza le quali anche le tradizionali (ferrovie, autostrade, porti, aeroporti, servizi pubblici, media audiovisivi)  non potranno risultare strategiche, aumentando in efficienza e competitività, se non opereranno in un contesto virtuale che, tuttavia, esiste nella realtà.

Con queste premesse non meraviglia la scelta della Rai di chiudere il canale Youtube per monetizzare in house il suo patrimonio audiovisivo. I settecentomila euro forfettari, derivanti dall’accordo sottoscritto nel 2008 con il colosso di Mountain View, non sarebbero più sufficienti a soddisfare gli appetiti di un’azienda vorace e dispendiosa i cui introiti pubblici e privati sono rapidamente fagocitati da un’organizzazione mastodontica dalle forte connotazioni clientelari (nonostante l’alta qualità dei prodotti televisivi).

I vertici di via Teulada, nei modi e nelle dichiarazioni, si muovono come gli avversari del laissez-faire di fine Ottocento: il prodotto nazionale va difeso e tutelato sottraendolo alla competizione del libero mercato globale. Un anacronistico isolazionismo aziendale che ricalca la presa di posizione di Mediaset, da anni in guerra aperta con Youtube per le violazioni di copyright.

La gravità dell’operazione è facilmente intuibile: la Rai e il Biscione, comportandosi allo stesso modo, provano a monopolizzare il mercato nazionale del digitale; la Tv di Stato, privilegiando un’autonoma raccolta pubblicitaria online, rinuncia al suo mandato pubblico; last but not least, accentuando la gestione commerciale del patrimonio audiovisivo si sminuisce il valore documentale di una produzione che, in virtù dell’accumulazione storica, è a tutti gli effetti un bene comune, proprio in forza della sua natura statale.

Se ormai è unanimemente riconosciuto il ruolo della Televisione, quale parte integrante del processo di crescita dei consumi e di unificazione culturale di una nazione economicamente e linguisticamente diseguale, allora è del tutto evidente che si tratta di un patrimonio collettivo da tutelare e sottrarre a smanie di controllo privatistico.

Anzi, a ben vedere, sarebbe necessario il contrario, ovvero imporre a Mediaset un sistema centralizzato di archiviazione (così come accade per i media della carta stampata) in modo da salvaguardare, in ogni caso, il servizio pubblico nazionale, anche se realizzato da un’azienda privata. La vicenda potrebbe essere risolta con il conferimento dell’intero patrimonio documentale all’Istituto per i beni sonori ed audiovisivi (che peraltro ha un suo canale su Youtube), così come si fa in Francia con L'Institut national de l'audiovisuel (INA).

La sfida lanciata dalla Rai a Youtube, al di là delle remunerazioni pubblicitarie, è il risultato congiunto di due aspetti negativi: da un lato la rinuncia alla diffusione globale di un bene comune italiano; dall’altro l’autosufficienza commerciale, a fini protezionistici, di contenuti che privati non sono.

I dirigenti Rai sottovalutano un dato importante: Youtube è il più grande archivio accidentale del Novecento. Video musicali d’epoca, documentari, film, pubblicità, spettacoli, news, telegiornali, eventi sportivi, inchieste televisive e talk show sono caricati in piattaforma non solo dal gestore pubblico ma anche da milioni di collezionisti amatoriali che digitalizzano in proprio i nastri VHS per lanciarli in rete in modo da ricostruire momenti salienti della storia nazionale attraverso le immagini televisive. Un vero e proprio monumento delle memorie collettive.

Il risultato finale di questo travaso è la formazione di un contenitore digitale dal quale è possibile estrarre, senza particolari filtri d’ingresso, frammenti visivi di un mondo che può replicarsi all’infinto grazie allo sharing online. Paradossalmente la semplicità di utilizzo, di accesso e di ritrasmissione è determinata proprio dalle logiche commerciali applicate dalla multinazionale (più il video viene visualizzato più è conveniente l’inserimento di spot pubblicitari).

La contrapposizione della Rai presupporrebbe uno sviluppo dinamico della piattaforma aziendale consentendo, per esempio, una maggiore facilità di fruizione dell’enorme deposito documentale delle Teche che se catalogato e organizzato, secondo i criteri dei social media, potrebbe essere il più grande recipiente dell’immaginario collettivo nazionale a disposizione degli internauti.

Anche se questo accadesse una differenza sostanziale rimane: allo stato attuale la ricerca di audiovisivi Rai, operata attraverso Youtube, gode di un’ampia visibilità grazie alla multi-nazionalità simultanea del medium, consentendo anche a chi vive dall’altra parte del globo (pensate alle comunità italiane all’estero) di accedere senza soggiacere a particolari criteri selettivi. Basta scrivere una parola chiave per avviare la ricerca a partire da Google. Se invece i materiali saranno rimossi bisognerà sapere dove cercare e cosa cercare, senza dimenticare che milioni di video caricati dagli utenti rischiano di essere rimossi per violazione del copyright.

Insomma un danno di proporzioni enormi che impedisce la valorizzazione di un bene comune qual è il patrimonio audiovisivo pubblico.

È vero Youtube si sta evolvendo in archivio di massa eterogeneo disordinato, eppure le istituzioni culturali non possono chiudere le porte in faccia a questa trasformazione che impatterà sulle loro funzioni e sulle loro pratiche al di là della volontà politica ed economica di chi le dirige.

A differenza della Rai, per esempio, l’Istituto Luce, dopo un primo periodo di accesso limitato all’archivio digitale, ha compiuto una svolta epocale aprendo un canale su Youtube dove è possibile cercare, senza passare attraverso la trafila dell’accreditamento al sito dedicato, i preziosi filmati che mostrano l’Italia del fascismo e del secondo dopoguerra.

Nonostante sia circolata la notizia che dal 1° giugno i filmati sarebbero stati rimossi dalla piattaforma di Mountain View esiste ancora un canale Rai, diviso per trasmissioni, dove è possibile visualizzare i contenuti digitali della Tv di Stato. Ho provato ad aprire alcuni video appena caricati e mi è apparsa scritta: “Questo video è privato. Siamo spiacenti”. Come volevasi dimostrare.

https://www.youtube.com/watch?v=kGDoXApc7fo
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