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Opinioni

La ripresa? I ricchi sono più ricchi e i poveri sempre più poveri

C’è la ripresa, riparte l’industria, aumentano i contratti indeterminati. Eppure siamo più poveri che mai. Perché il Pil non basta a capire il benessere di una nazione. La disoccupazione non è l’unico problema. E perché questa ripresa favorisce soprattutto i ricchi.
A cura di Michele Azzu
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La ripresa c’è ma non si vede. Stiamo uscendo dalla crisi, ma la maggior parte di noi non se n’è accorta. E la crescita? Rimane relegata ai titoli di quei quotidiani prestigiosi a cui, si sa, ormai la gente non crede più. Il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato nei giorni scorsi che: “Senza una significativa accelerazione della crescita, ci vorranno 20 anni a Portogallo e Italia per ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi”.

Ma, aggiunge sempre l’FMI, l’Italia: “Sta emergendo da tre anni di recessione” e: “La ripresa prosegue”. L’FMI quindi ammonisce il governo: “Fate le riforme sul lavoro”. Per renderlo più flessibile. Ma come – diranno alcuni – non basta il Jobs Act di Renzi che ha riformato i contratti, cancellato l’articolo 18 (che obbligava le aziende a reintegrare i dipendenti licenziati senza “giusta causa”), messo all’angolo i sindacati?

Il Jobs Act non è abbastanza, e c’è da preoccuparsi se a dirlo sono le stesse persone che hanno trasformato la Grecia in uno stato vassallo dell’Eurogruppo, con un accordo durissimo per il salvataggio del paese. Ma queste sono dinamiche politiche, altre sono quelle della finanza, altra cosa ancora gli umori degli europei – chi sta con l’austerity della Merkel, e chi pensa che in Europa qualcosa dovrebbe cambiare.

Un’altra cosa sono i fatti, e quelli ci dovrebbero preoccupare ancora di più. Perché sul lavoro, il Fondo Monetario Internazionale ha ragione: l’Italia non è in condizione di uscire in pochi anni dal tunnel della disoccupazione (né da quello dei giovani senza lavoro). Del resto lo dicono anche i rapporti dell’agenzia delle Nazioni Unite, l’International Labour Organization: “La sfida di riportare la disoccupazione ai livelli precedenti la crisi sembra molto difficile da superare”.

La disoccupazione al 12%, quella giovanile al 43%, il 70% dei contratti è a tempo, al sud lavora una donna giovane su dieci (anzi, un po’ meno). Insomma, la domanda è ormai davanti agli occhi di tutti: perché se gli indicatori parlano di un paese in ripresa, questa non si traduce in condizioni di vita migliori per tutti noi? Perché siamo ogni giorno più poveri, perché continua a mancare il lavoro? È forse la domanda fondamentale dei nostri tempi, e non riguarda solo l’Italia. La Spagna va meglio di noi: ha una crescita superiore, una previsione di crescita maggiore (addirittura 2.9% del Pil). Ma nonostante questo la disoccupazione al 23% (circa il doppio la nostra) e quella giovanile al 50% (come in Grecia).

Il malcontento ha portato gli spagnoli a votare in massa “Podemos” alle recenti elezioni amministrative, a eleggere due sindaci del movimento nato dalle proteste degli “indignados” del 2011, a Barcellona e Madrid. Il partito al governo, il PP dei liberali di Mariano Rajoy ha perso due milioni e mezzo di voti. Insomma, nonostante una ripresa e una crescita maggiori che in Italia, in Spagna la crisi si sente ancora moltissimo, e il malcontento è più forte che mai. I soli numeri dell’economia non riescono a produrre effetti nella vita delle persone, che a causa della crisi si sono impoverite, hanno venduto le case, perso il lavoro, utilizzato risparmi e pensioni per dare qualcosa a figli e nipoti precari e disoccupati perché possano aprire un’attività e mettere su famiglia.

E allora, forse è necessario cercare altri parametri oltre il Pil, quelli più specifici delle condizioni di vita degli italiani. Partiamo dalla povertà: secondo l’Istat un milione e mezzo di famiglie vivono in condizione di povertà assoluta. Sono più di quattro milioni di persone. Non si tratta solo di giovani precari, o di pensionati che prendono 200 euro al mese: il rapporto dell’Istat sulle famiglie dice che nel 2014 oltre un milione di genitori non ha un lavoro. Cosa c’è di più chiaro ed indicativo della fame nel capire il livello di povertà di una popolazione? Secondo la ricerca curata dalla Fondazione Banco Alimentare insieme a Deutsche Bank in Italia cinque milioni e mezzo di persone soffrono di “povertà alimentare”. Circa il 10% degli italiani fa, letteralmente, la fame.

Ma torniamo alle dichiarazioni del Fondo Monetario Internazionale, ai 20 anni che serviranno all’Italia per tornare ai livelli di occupazione pre-crisi. Anche qui è necessario ragionare su altri parametri. Perché il problema va oltre la disoccupazione: c’è da considerare che molte persone che risultano occupate, in realtà non lo sono. Non rientrano nel novero dei disoccupati i “Neet”, per esempio, i giovani che non studiano e non lavorano. Non rientrano fra i disoccupati gli studenti – e quanti giovani conoscete che ancora fanno corsi universitari fino ai 30 anni perché è meglio che cercare lavoro? Non rientra fra i disoccupati chi lavora con un contratto a tempo – cioè la maggioranza di chi trova un lavoro – eppure la maggior parte dei contratti dura meno di sei mesi.

In Italia c’è la ripresa, eppure i poveri sono sempre più poveri, e serviranno chissà quanti anni per tornare a livelli accettabili di occupazione. Ma allora a chi giova questa ripresa? Va da sé: ai ricchi, che sono sempre più ricchi. È una ripresa, questa, fatta delle tante regalie del governo Renzi alle grandi aziende, dagli sgravi sulle assunzioni, al taglio dell’Irpef, alle liberalizzazioni nei contratti, fino agli stage dei precari pagati quasi interamente con le tasche dei contribuenti – una vergogna nota con il nome di progetto "Garanzia Giovani", che non ha dato lavoro a un singolo giovane in oltre un anno.

È una ripresa fatta per chi evade le tasse e ha portato i capitali all’estero: è di queste ore la notizia (come riporta Il Sole 24 Ore) per cui nell’ultima versione del decreto legislativo sul “rientro dei capitali” è spuntata una sanatoria per cui queste persone non solo non richiano il carcere, ma non avranno alcuna sanzione monetaria. Non stupiamoci, quindi, se c’è la ripresa ma siamo sempre più poveri.

Questa ripresa è una cosa da ricchi. E no, caro Fondo Monetario Internazionale, flessibilizzare ulteriormente il lavoro non invertirà la rotta sulla disoccupazione. Impoverirci ulteriormente – nelle tutele, nei servizi, negli stipendi – non fermerà questa spirale di divario sociale crescente. Servirà, ancora una volta, a farci diventare più poveri. Mentre i ricchi sono sempre più ricchi.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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