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La resistenza degli indiani d’America contro Trump e petrolieri: “No all’oleodotto sulla nostra terra sacra”

La protesta nata attorno alla costruzione dell’oleodotto (Dakota Access Pipeline) in alcuni stati del Midwest sembrava conclusa con la “sconfitta” dei manifestanti. La lotta della comunità, invece, continua.
A cura di Redazione
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Quello sulle condizioni dei nativi americani negli Usa è un dibattito che solo occasionalmente torna alla luce portando con sé il carico di vite vissute in isolamento nelle riserve dove un tasso elevatissimo di povertà si combina con problemi di alcolismo e depressione.

La protesta nata attorno alla costruzione dell'oleodotto (Dakota Access Pipeline) in alcuni stati del Midwest è stata uno di quei momenti di rinata ‘notorietà'. Una storia che solo fino a poche settimane fa sembrava conclusa ma che al contrario continua a riservare colpi di scena.

Dopo che l'infrastruttura lo scorso giugno è entrata in funzione, un giudice federale ha infatti imposto di verificare nuovamente l'impatto ambientale dell'opera. E gli indiani tornano a far sentire la propria voce.

La storia della protesta

Nel giugno del 2014 la compagnia texana Energy Transfer Partners ha annunciato la costruzione dell'oleodotto il cui percorso avrebbe avuto inizio nel Dakota del Nord per finire in una raffineria dell'Illinois, nei pressi di Chicago. La tribù dei Sioux  che vive nella riserva del Dakota (a circa un'ora da Bismarck capitale dello stato) ha da subito alzato gli scudi. Due le evenienze contestate dagli indiani:  il potenziale inquinamento del fiume Missouri causate da eventuali perdite di petrolio e la profanazione delle sepolture situate proprio in un'area attraversata dall'oleodotto. (I nativi sostengono che la Dakota Access avrebbe distrutto oltre 300 siti importanti per le tribù solo nel North Dakota).

Sacred Stone (pietra sacra) è il nome del campo di protesta in cui 10 mila persone, non solo i nativi indiani, hanno pacificamente protestato contro l'infrastruttura. Il campo è sorto nel terreno privato della nativa e storica indiana Ladonna Brave Bull Allard, oggi portavoce della protesta diventata un movimento ecologista internazionale. Ladonna è stata la prima a protestare perché l'infrastruttura avrebbe travolto la sepoltura di suo figlio.

Prima della fine del proprio mandato, il presidente Usa Barack Obama aveva aperto (dopo mesi di proteste e scontri con le forze dell'ordine) alla possibilità di aggiornare il progetto in modo da aggirare le terre sacre dei nativi americani. Lo scorso febbraio Donald Trump, a pochi giorni dall'arrivo alla Casa Bianca, ne ha autorizzato la costruzione  sostenendo che l'opera avrebbe creato nuovi posti di lavoro. Di lì a pochi giorni i campi di protesta sono stati evacuati e il progetto è stato completato. Dal 1 giugno, come riportato dal sito ufficiale della compagnia, l'infrastruttura è diventata operativa, ma ora rischia la chiusura.  Il 15 giugno scorso infatti il giudice federale James Boasberg ha ordinato agli U.S. Army Corps of Engineers (corpo degli ingegneri dell'esercito) di riconsiderare l'impatto ambientale dell'oleodotto.

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Gli indiani e la protesta

Il racconto della protesta sarebbe rimasto confinato nelle cronache dei giornali locali se gli indiani non avessero dato vita alla raccolta fondi online, attraverso la piattaforma “go fund me”, e non avessero raccontato attraverso i social media la violenza con cui è stata rimossa. Numerosi sono i video che documentano scene di violenza in cui i manifestanti che avevano invaso il confine che delimitava l'area dei lavori, venivano fatti retrocedere con l'uso di spray al peperoncino, gas lacrimogeni e getti d'acqua fredda in pieno inverno, oltre che con le intimidazioni di cani addestrati alla difesa. Ladonna Brave Allard per ben due volte ha esposto il caso al palazzo di vetro delle Nazioni Unite e ora il dossier è al vaglio dell'ufficio di Ginevra.

Dopo che il campo è stato evacuato, gli indiani – pur con le divisioni che si sono inevitabilmente create – hanno cominciato a promuovere le istanze ecologiche e Ladonna ha parlato al Greenfestival di Parigi, proprio qualche settimana dopo la decisione di Trump di uscire dall'accordo di Parigi sull'ambiente.

La statua simbolo della protesta
La statua simbolo della protesta

Il controcanto: «Ma quali ideali, gli indiani hanno protestato per soldi»

Ernie e Beverly Fischer sono una coppia di allevatori della zona che fino allo scorso anno avevano in affitto un terreno per il pascolo poi venduto dal proprietario all'Energy Transfer per consentire il passaggio dell'oleodotto. L'avvio delle proteste ha segnato per loro l'inizio di un incubo. «I manifestanti venivano qui e travalicavano il confine del nostro ranch, ci hanno distrutto macchinari, hanno cosparso la nostra recinzione con urine e feci e hanno persino ucciso alcuni dei nostri bisonti per mangiarseli» ci raccontano. «Non serviva a nulla dirgli che noi non c'entravamo, che non avevamo ricevuto petrodollari».E  spiegano : «Ad alcuni chiedevamo che cosa ci facessero qui e ci rispondevano che erano senza casa e che vivevano nella riserva perché gli avevano dato un posto dove stare, tre pasti al giorno e soldi. Gli chiedevamo spesso chi li finanziassero ma non ci hanno mai fornito il nome. Hanno raccolto milioni di dollari ma non se ne conosce la provenienza e non si sa a cosa siano serviti»

A cura di Marianna D'Alessio

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