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La pasta: dove è nato e come si è diffuso il cibo più amato dagli italiani

Sin dal Medioevo la pasta caratterizza la cultura alimentare della penisola. Prima della sua diffusione nella Napoli spagnola, c’erano state la lasagna a Roma e i vermicelli arabi in Sicilia, passando per la pasta “bassa” di Bologna e quella “alta” di Milano.
A cura di Laura Di Fiore
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La pasta, senz’altro uno dei simboli della cucina italiana, caratterizzava già nel Medioevo la cultura alimentare della penisola. Certo, non si trattava di un’esclusiva della nostra cucina, dal momento che essa appariva in diversi ricettari europei dell’epoca. Eppure, come ha ricostruito il professor Massimo Montanari, l’Italia medievale vide il moltiplicarsi di tipologie e formati di pasta da un capo all’altro della penisola, dalle lasagne di forma larga e di matrice romana ai vermicelli di forma allungata introdotti dagli arabi in Sicilia, dai nuovi “maccheroni” di tipo corto e forato ai tortelli ripieni.

Così, come emerge dai due più antichi ricettari italiani, il "Liber de coquina" elaborato nel Trecento alla corte angioina di Napoli e il testo di cucina scritto a Siena nello stesso periodo, la pasta prese a essere un elemento sempre presente sulle tavole dell’Italia medievale. Dove non mancavano mai le torte di pasta dura, ripiene di carne, verdure, formaggi. Le varianti erano molte e cambiavano da luogo a luogo. Così, mentre a Bologna erano di forma più bassa e più alte erano a Milano, a Napoli erano aperte, proprio come avviene per l’amata pizza, già così definita allora.

Se, quindi, entro il Quattrocento si consolidata la centralità della pasta nella cucina italiana, non bisogna però dimenticare il carattere “meticcio” di quest’alimento, frutto dell’incrocio di diverse tradizioni culinarie ma anche degli scambi con altri popoli e culture. Alla presenza araba in Sicilia si deve infatti il metodo di far seccare la pasta per poterla conservare e, non a caso, fu siciliana la prima fabbrica che già nel XII secolo esportava pasta secca in tutto il Mediterraneo.

Fu, però, nella prima metà del Seicento che il consumo di pasta conobbe un’importanza e una diffusione assolutamente nuove. Come racconta Emilio Sereni, il cambiamento epocale partì dalla Napoli spagnola che, stretta in una drammatica crisi produttiva, vide ridursi notevolmente la disponibilità di carne e verdura. A quel punto, il pane e la pasta acquisirono un’inedita centralità nella dieta cittadina. Non solo. Grazie all’invenzione del torchio meccanico, la pasta, fino ad allora considerata un cibo riservato alle classi più agiate, poté essere prodotta a un costo più basso, diventando così un alimento base anche per la dieta popolare.

Condita inizialmente solo di formaggio e in seguito, a partire dall’Ottocento, genialmente abbinata alla salsa di pomodoro, essa occupò prepotentemente il posto centrale nell’equilibro dietetico napoletano, divenendone un vero e proprio simbolo. Nel corso del tempo il consumo di pasta sarebbe poi tornato a essere riconosciuto come tipico dell’intero popolo italiano, a partire ancora, tuttavia, da una matrice meridionale. Lo stereotipo dell’italiano “mangiamaccheroni” nacque infatti in America, dove la pasta sbarcò assieme ai tanti emigrati  – soprattutto dal Sud Italia – che sfuggivano alla fame. Ma questa è già un’altra storia.

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Nata nel 1979, vivo a Napoli e ho due gemelli. Sono ricercatrice in storia, (al momento) a Bologna, e ho pubblicato due monografie: Alla frontiera. Confini e documenti di identità nel Mezzogiorno continentale preunitario (Rubbettino 2013) e L’Islam e l’impero. Il Medio Oriente di Toynbee all’indomani della Grande guerra (Viella 2015).
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