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La Grecia si vergogna dei Cie. E l’Italia?

Il modello Cie non funziona, costa troppo ed è lesivo della dignità umana. E allora, che senso ha continuare a mantenerli in funzione?
A cura di Claudia Torrisi
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Martedì sera il governo greco ha comunicato con una nota la decisione di procedere a uno svuotamento progressivo dei Cie – centri di identificazione ed espulsione per migranti irregolari – presenti nel paese, la conversione in centri di accoglienza e l'impegno a trovare misure alternative. A serrare i cancelli sarà, invece, il centro di Amygdaleza – a nord di Atene – il più controverso,  spesso teatro di rivolte e proteste dovute alle precarie condizioni di vita. Già a gennaio Syriza aveva promesso di chiudere i campi come Amygdaleza. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il suicidio lo scorso 13 febbraio di Nadim Mohammed, 28enne pakistano, che si è impiccato con un asciugamano al letto a castello del container utilizzato come “cella temporanea”.

Tra le proteste di migranti e associazioni, il vice ministro della Protezione dei cittadini Yannis Panousis è andato a visitare il centro, esprimendo la propria vergogna per le condizioni di vita nel centro “non come ministro, ma come essere umano”. Il ministro ha anche detto che questa “non è l'immagine di una nazione europea e di una nazione che ha rispetto per gli esseri umani”.

La Grecia, dunque, si vergogna di un'immagine del genere e non può macchiarsene. E l'Italia? Nel dibattito politico-istituzionale del nostro paese non sembra esserci traccia – o quasi – della questione. Lo scorso autunno è stata deliberata l'istituzione di una commissione parlamentare di esperti sul tema che, però, al momento ancora non è partita e i Cie sono ancora in piedi. Una presa di coscienza politica del problema negli ultimi tempi c'è stata. A ottobre la Camera ha ridotto il tempo massimo di permanenza nei centri da 18 a 3 mesi, passati i quali, si dovrà procedere alla liberazione. “Ma dentro i Cie ancora c'è una qualità del servizio bassissima”, spiega Gabriella Guido di LasciateCIEntrare.

Qualche giorno fa una delegazione di Radicali Roma ha visitato il Cie di Ponte Galeria, alle porte della Capitale, il più grande d'Italia, e ha chiesto al sindaco Ignazio Marino di recarsi al più presto nel centro e “mobilitarsi per chiederne la chiusura immediata”. Alla visita ha partecipato anche la giornalista Raffaella Cosentino, che ha raccontato di detenuti che si sono recisi le vene, altri che hanno ingoiato pezzi di ferro o lamette. Ci sono anche casi di scabbia – su 100 detenuti, 16 sono in isolamento – abuso di psicofarmaci. Il tutto in celle con mura ammuffite, bagni allagati, riscaldamenti non funzionanti.

Quello di Ponte Galeria è uno dei cinque Cie – Roma, Torino, Bari, Trapani e Caltanissetta – rimasti attivi. Gli altri sono stati chiusi, per lo più devastati da rivolte o travolti da malagestione: dei 1790 posti disponibili fino a due anni fa, oggi si arriva a circa 650.

Queste strutture – originariamente Cpta, centri di permanenza temporanea e assistenza – sono state istituite nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, poi modificata dalla Bossi-Fini e da altre successive. Il senso di questi luoghi è quello di “ospitare” gli stranieri senza permesso di soggiorno, quando per diverse ragioni, tra cui l'identificazione, non è possibile immediatamente l'espulsione. Nel variegato universo delle sigle dedicate ai centri per migranti nel nostro paese, i Cie sono quelli che presentano gli aspetti più controversi: luoghi di detenzione per individui che hanno violato una disposizione amministrativa – com'è appunto il possesso del permesso di soggiorno.

Le condizioni di vita nei Cie? Peggio che in carcere

A settembre del 2014, la commissione Diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, ha redatto un rapporto sui Cie, risultato di un anno di ispezioni nelle strutture di Roma, Bari, Torino, Trapani e Gradisca d'Isonzo (oggi chiuso). La commissione ha definito i Cie “centri strutturalmente afflittivi, spesso inadeguati nei servizi offerti e con scarsi mezzi di gestione”. Dal rapporto sono emerse “profonde incongruenze riguardo alle funzioni che essi dovrebbero svolgere”, nonché “modalità di trattenimento inadeguate rispetto alla tutela della dignità e dei diritti”. È la seconda volta che la commissione punta il dito contro i Cie, definiti nel 2012 “peggio delle carceri”.

Che le condizioni all'interno dei centri siano spesso al limite della sopportazione, lo dimostrano anche le rivolte e le denunce che, negli anni, si sono succedute. Nel dicembre 2013, alcuni “ospiti” del Cie di Ponte Galeria si sono cuciti la bocca con ago e filo per protesta. A novembre dello stesso anno, al centro di Gradisca ci sono stati tre giorni di rivolte per le inaccettabili condizioni di vita. Nell'ottobre del 2014, invece, un gruppo di “ospiti” del Cie di Bari ha dato fuoco a materassi contro l’intervento delle forze dell’ordine nei confronti di un cittadino albanese che sarebbe stato “portato in una stanza e picchiato”. Proprio quel centro è stato più volte al centro di denunce: secondo Medu – Medici per i diritti umani, la struttura sarebbe “al di sotto degli standard di dignità”. Lo scorso 7 febbraio nel Cie pugliese, è morto Reda Mohammed, 26 anni, per "arresto cardiorespiratorio irreversibile". Oltre a questi episodi, in queste strutture si verificano tentativi di suicidi, fughe, roghi.

Protesta al Cie di Ponte Galeria, settembre 2014
Protesta al Cie di Ponte Galeria, settembre 2014

A che servono ancora i Cie?

La riduzione dei tempi era stata annunciata dal ministro dell'Interno Angelino Alfano a dicembre del 2013 dopo che il deputato Pd Khalid Chaouki si era barricato nel Cie di Lampedusa. Allo stesso tempo, però, Alfano si era affrettato a dire che non era prevista alcuna chiusura dei centri, necessari perché “non possiamo, sull’onda di giustificata emotività, mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini”. L'argomento della necessità dei Cie per garantire la sicurezza, nonostante sia stato un grande cavallo di battaglia dei sostenitori, dati alla mano fa acqua da tutte le parti.

Nel 2013, sono stati 6.016 i migranti trattenuti nei Cie italiani, cioè lo 0,9% del totale degli irregolari stimati in Italia (294 mila secondo l'Ismu). Un'incidenza che non tocca nemmeno l'1%. Secondo il rapporto Medu, nello stesso anno il tasso di migranti effettivamente rimpatriati sul totale dei trattenuti è stato del 45,7%. Il 15, 1% si è allontanato arbitrariamente, mentre il 5% è stato dimesso perché non identificato allo scadere dei termini. Nel Cie di Trapani sono stati rimpatriati solo il 17% degli ospiti, a fronte di un 60% di reclusi che si sono allontanati. In tutto tra il 1998 e il 2013 sono stati complessivamente detenuti nei Cpta prima – poi Cie – 175.142 migranti, ma effettivamente rimpatriati 80.830, il 46,2%. Meno della metà.

Una donna protesta all'esterno del Cie di Roma
Una donna protesta all'esterno del Cie di Roma

Un alto numero di reclusi viene dal carcere, dove però non sono stati identificati. “Quello del fine pena è oggi il problema più grosso – spiega Fulvio Vassallo Paleologo, professore di diritto d'asilo all'università di Palermo – Allo scadere della detenzione, invece del rimpatrio scatta il trasferimento nel Cie, una nuova reclusione”. Praticamente una doppia pena, solo perché straniero. Secondo Caritas-Migrantes, tra l'altro, per la maggior parte si tratta di “manovali  nelle reti della criminalità per via delle precarie condizioni di vita”. Il reato più comune è lo spaccio e la detenzione di droga (26,6%), che prevale anche rispetto ai reati contro il patrimonio (25,1%), per la maggiore tra gli italiani.

Ma gli “ospiti” dei Cie non sono solo ex detenuti. Ci sono migranti appena arrivati, richiedenti asilo, cittadini comunitari, stranieri da molti anni in Italia con famiglia ma senza contratto regolare, persone che hanno perso il lavoro, immigrati con permesso di soggiorno scaduto. Oltre a un alto numero di “portatori di differenti tipi di vulnerabilità”, come le vittime di tratte. E poi le storie di chi resta improvvisamente impigliato nella macchina dei rimpatri. Come Emra Gasi, 22enne nato a Napoli da genitori serbi e vissuto in provincia di Venezia, rinchiuso nel Cie di Bari perché risultato non in possesso del permesso di soggiorno.

Secondo il rapporto Caritas-Migrantes, il paradosso del sistema dei Cie è che “implica un’imponente spesa pubblica per misure inefficaci e inadeguate” e “non soddisfa, se non in misura minima, l’interesse al controllo delle frontiere e alla regolazione dei flussi migratori”, ma sembra assolvere “a un’altra funzione: quella di sedativo delle ansie di chi percepisce la presenza dello straniero irregolarmente soggiornante, o dello straniero in quanto tale, come un pericolo per la sicurezza”.

Il costo esorbitante del sistema Cie

Nonostante non esistano dati ufficiali, secondo quelli raccolti dall'associazione Lunaria, tra il 2005 e il 2011 l’intero sistema dei centri per migranti è costato allo Stato un miliardo di euro, in media 143,8 milioni l’anno. Gran parte di questi imputabili alle spese dei Cie: solo i costi minimi sono stati di circa 55 milioni di euro l’anno. I ricercatori della Scuola superiore Sant'Anna di Pisa hanno stimato in oltre 80 mila euro la spesa per costruire un solo posto letto in più, 350 euro per il gratuito patrocinio a spese dello Stato per una sola persona, 10 per l’emissione di ogni provvedimento di convalida del trattenimento da parte del giudice di pace, e 20 per il giudice per ogni udienza. Un buco nero che ha inghiottito milioni.

Al momento i Cie sono semivuoti: dei 650 posti oggi disponibili, a essere occupati, nonostante il ministero non diffonda dati da luglio, sarebbero meno della metà. Questo ha sicuramente abbassato i costi, ma non del tutto: in alcuni Cie persistono contratti “vuoto per pieno”. A Torino, ad esempio è previsto che per il primo mese venga pagata la quota per le presenze effettive, ma dal trentunesimo giorno di gestione si passa al corrispettivo della metà della capienza del centro anche se i trattenuti effettivi sono di meno (oggi 20 su 180). Secondo Gabriella Guido, con questi numeri, “praticamente all'interno si trova più personale e forze dell'ordine che migranti. Il problema è che i gestori sono enti profit, devono incassare dal contratto con la Prefettura”. Tra l'altro, molte strutture stanno subendo lavori di ristrutturazione, a spese dello Stato.

Chiudere tutti i Cie?

Dunque non funzionano, costano troppo e sono oltremodo lesivi della dignità umana. “La chiusura sarebbe l'unica cosa da fare, anche perché esistono accordi bilaterali che prevedono procedure di rimpatrio ed espulsione in collaborazione con ambasciate e consolati di provenienza”, spiega Paleologo. La chiusura totale, però, per adesso non arriva, “almeno finché il tema dell'immigrazione non verrà affrontato in maniera completamente diversa”, dice Gabriella Guido. E questo è vero più che mai adesso, bombardati dalla minaccia di un'invasione di terroristi sui barconi. In Puglia il prefetto di Lecce ha già deciso una stretta sull'applicazione delle leggi sull'immigrazione per far fronte a potenziali jihadisti: le persone che non chiedono asilo politico e rifiutano le procedure di identificazione – per qualunque motivo, compreso il proposito di chiedere protezione internazionale in un altro paese – saranno direttamente accompagnate nei Cie.

In questo clima, e fino all'auspicata chiusura, i centri di identificazione ed espulsione potranno proseguire a pieno la loro funzione: dipingere il migrante come una persona pericolosa e nasconderlo. Il più lontano possibile.

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