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La débâcle del Partito Democratico: a Torino e Roma, voto in chiave anti-renziana

Un ritratto complesso, quello che viene fuori da queste recenti elezioni amministrative. Roma e Torino scelgono il cambiamento con i 5 Stelle, rigettando i candidati dell’establishment del Partito Democratico. Un voto in chiave anti-renziana, che non può essere spiegato solamente a livello territoriale, senza tener conto del contesto nazionale.
A cura di Charlotte Matteini
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Un voto complesso da analizzare, quello di queste Amministrative 2016. Un dato su tutti: su 20 comuni in cui il Movimento 5 Stelle è andato al ballottaggio, i grillini hanno portato a casa la vittoria in 19 città. In particolare, il successo romano con l'ascesa di Virginia Raggi al Campidoglio e di Chiara Appendino a Torino, il Movimento 5 Stelle non può che dirsi soddisfatto e, sottolineerei, il vero vincitore morale di questa tornata elettorale, dalla quale il Partito Democratico esce visibilmente indebolito. Un risultato, quello del Pd, ben al di sotto delle aspettative. Solo Milano, e parzialmente Bologna con la riconferma al secondo turno del sindaco uscente Virginio Merola, riescono a dare qualche soddisfazione a Matteo Renzi, che si riserva di commentare il risultato durante la direzione nazionale del Partito del 24 giugno. 

A Milano, un ballottaggio sul filo del rasoio, un testa a testa tra l'ex commissario di Expo Beppe Sala e il candidato di centrodestra Stefano Parisi. Solo due punti percentuali separavano i due contendenti dallo scranno di Palazzo Marino stando agli exit poll e alle prime proiezioni. Una partita aperta, talmente aperta che inizialmente lo staff di Sala e tutti i sostenitori politici più in vista si sono rifiutati di parlare con i giornalisti: nessuna dichiarazione senza dati certi, interverremo probabilmente a fine scrutinio. Non appena però la distanza tra i due contendenti ha toccato i 17.000 voti reali in favore di Sala, al comitato meneghino gli animi si sono rasserenati e le dichiarazioni politiche si sprecavano. L'ansia e la paura erano palpabili a inizio serata, sentimenti che continuavano ad essere alimentati dalle indiscrezioni che arrivavano da Roma, Torino e Napoli. La vittoria non era certa, la possibilità che potesse vincere Parisi – indietro di soli 5.000 voti al primo turno – preoccupava lo staff del Partito Democratico meneghino, perché nel caso il Pd avesse perso anche Milano, sarebbe stato molto difficile per Matteo Renzi recuperare il danno di immagine provocato dalla vittoria del centrodestra su un candidato di chiara espressione renziana.

A Napoli la vittoria schiacciante dell'arancione Luigi De Magistris sullo sfidante Gianni Lettieri era invece ampiamente prevista, il ballottaggio avrebbe semplicemente fornito il dato percentuale di votanti favorevoli alla riconferma del sindaco uscente, ma la vittoria era scritta già dal primo turno, con quei venti punti percentuali che staccavano De Magistris dal candidato di centrodestra. Interessante è piuttosto la débâcle della Valente, candidata anch'essa come Sala di espressione renziana che, nonostante il sostegno del presidente del Consiglio, del fondatore di Ala Denis Verdini e della dirigenza Pd partenopea, non è riuscita ad arrivare al ballottagio contro De Magistris, racimolando un scarso 21,5% di consenso elettorale, che Matteo Renzi non ha esitato a definire il "peggiore" d'Italia. "A Napoli avremmo dovuto fare meglio, anche perché peggio è difficile", le parole del presidente del Consiglio all'indomani del primo turno elettorale a Napoli. Un Matteo Renzi preoccupato, che ha inoltre accennato alla concreta possibilità di commissariare il partito napoletano per fare "pulizia", commissariamento che si rende necessario in seguito ad alcuni presunti brogli e illeciti elettorali commessi sul territorio da esponenti locali legati al Pd, illeciti documentati da alcune inchieste condotte dai giornalisti della redazione partenopea di Fanpage.it.

Se a Napoli la vittoria dell'avversario De Magistris era scontata, a Torino la clamorosa sconfitta di Fassino è stata un'amara sorpresa. Il sindaco uscente, che al primo turno aveva collezionato un vantaggio elettorale di circa 11 punti percentuali sulla sfidante del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino, ha perso la poltrona di sindaco di Torino al ballottaggio. Una vittoria imprevista, quella di Chiara Appendino. Analisti politici e dirigenza locale del Partito Democratico erano certi che la riconferma di Piero Fassino alla guida del capoluogo piemontese sarebbe stata una mera formalità, come accaduto per De Magistris a Napoli. Ma verso mezzanotte, quando il distacco tra Fassino e Appendino calcolato sui voti reali pervenuti dallo spoglio delle sezioni torinesi era ormai sensibile e irrecuperabile per il candidato del Partito Democratico, l'ottimismo che aveva accompagnato gli ultimi 15 giorni di campagna elettorale è improvvisamente svanito e le uniche dichiarazioni politiche disponibili provenivano dai militanti e dalla dirigenza del Movimento 5 Stelle, impegnata in piazza a Torino in un corteo di festeggiamenti per la vittoria della Appendino. Non si può non parlare di débâcle del Partito Democratico a Torino, come al tempo stesso non si può non definire straordinaria la vittoria del Movimento 5 Stelle nel capoluogo sabaudo. Gli elettori torinesi hanno chiaramente espresso un disagio con il proprio voto e l'esigenza di un cambiamento. Quasi a preferire l'incerto per il certo, gli elettori hanno preferito voltare pagina e non concedere un'ulteriore possibilità a Piero Fassino, ovvero all'establishment politico torinese.

Infine Roma, dove la vittoria del candidato a 5 Stelle Virginia Raggi era ormai assodata già dal primo turno, con un sensibile vantaggio elettorale su Roberto Giachetti del Partito Democratico. Roberto Giachetti ha perso, racimolando solo il 36% circa dei consensi, un risultato ben al di sotto delle aspettative, nonostante fosse già dato per scontato il successo di Virginia Raggi nella Roma ancora visibilmente scossa dalle vicissitudine giudiziarie portate allo scoperto dall'inchiesta Mafia Capitale, vicende dalle quali Giachetti, nonostante non vi fosse implicato in prima persona, non è riuscito a smarcarsi completamente, passando agli occhi degli elettori romani come il candidato espressione di un partito parzialmente, allo stato attuale dell'inchiesta, invischiato in un pesante scandalo giudiziario. Virginia Raggi, invece, come accaduto a Torino per Chiara Appendino, si è posta come "il nuovo", la novità, il cambiamento che Roma aspettava da tanto, troppo tempo. Dopo decenni di giunte di centrodestra e centrosinistra, anche i cittadini romani hanno preferito concedere una possibilità all'incerto, che non a un candidato espressione dell'establishment che per molti anni ha governato Roma.

Nonostante la nota positiva di Milano, che mantiene un'amministrazione di centrosinistra anche se non esattamente vicina al modello Pisapia che ha accompagnato lo sviluppo del capoluogo meneghino negli ultimi 5 anni, nel resto d'Italia la disfatta del Partito Democratico è evidente. Uno schiaffo elettorale che non può essere ignorato e che, a mio avviso, difficilmente può essere analizzato senza tenere conto del contesto politico nazionale. Il Pd da queste amministrative ne esce visibilmente indebolito e, nonostante il presidente del Consiglio abbia in tutti i modi cercato di non personalizzare le elezioni promuovendo una sorta di "referendum" su se stesso – come accaduto invece nel 2014 alle elezioni europee, trasformatesi in una sorta di conferma politica per il presidente del Consiglio – è palese come in alcune città, Roma e Torino su tutte – il voto che ha incoronato sindaco le due candidate del Movimento 5 Stelle non sia solo espressione della volontà di cambiamento degli elettori, ma anche – e forse soprattutto – un voto di protesta in chiave anti-renziana, che scalfisce l'immagine alacremente e pazientemente costruita finora dallo storytelling. Un contraccolpo che a livello amministrativo pesa molto, ma che rischia addirittura di minare le sorti del vero referendum confermativo sull'Esecutivo Renzi, quello relativo alle riforme costituzionali del prossimo ottobre.

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Milanese, classe 1987, da sempre appassionata di politica. Il mio morboso interesse per la materia affonda le sue radici nel lontano 1993, in piena Tangentopoli, grazie a (o per colpa di) mio padre, che al posto di farmi vedere i cartoni animati, mi iniziò al magico mondo delle meraviglie costringendomi a seguire estenuanti maratone politiche. Dopo un'adolescenza turbolenta da pasionaria di sinistra, a 19 anni circa ho cominciato a mettere in discussione le mie idee e con il tempo sono diventata una liberale, liberista e libertaria convinta.
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