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Opinioni

La crisi è anche un problema di modelli competitivi

Se a livello macro la crisi europea pare legata all’assenza di crescita, a livello aziendale essa dipende anzitutto da differenti modelli competitivi. Quello tedesco sfrutta riforme che Francia e Italia ancora debbono fare.
A cura di Luca Spoldi
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Modelli a confronto. Se gli scenari macroeconomici, le discussioni filosofiche sui massimi sistemi, gli indici di borsa e lo spread Btp-Bund vi lasciano indifferenti o comunque diffidenti, non c’è nulla di meglio che il confronto su un terreno molto pratico, quello dei risultati di bilancio dei maggiori gruppi europei, per dimostrare come l’Unione europea resti un coacervo di situazioni tra loro disparate, condizionate dalla cultura dominante di ciascun paese e dalla sua maggiore o minore apertura alla concorrenza e all’innovazione. Chiariamo anzitutto una cosa: è evidente che a livello macroeconomico la crisi del debito sovrano altro non è che il risultato di un accumulo più che decennale di squilibri a livello di bilance dei pagamenti tra i “virtuosi” paesi del Nord Europa, che spesso hanno approfittato prima e meglio di altri degli anni di crescita per promuovere riforme strutturali che hanno introdotto più concorrenza nei vari settori, maggiore apertura nei confronti dell’estero, più flessibilità produttiva e ridotto il cuneo fiscale, e i “lazzaroni” del Sud Europa sono chiamati a varare misure analoghe in fretta e furia in un periodo di crisi economica sempre più netta (per alcuni decisamente virulenta: la Spagna, dove la disoccupazione ha ormai toccato il 24,4%, oggi ha annunciato di prevedere un calo del Pil dell’1,7% e un rialzo dello 0,3% nel 2013; la Grecia dopo aver registrato un calo del Pil del 6,9%l 2011 e con una disoccupazione a fine gennaio al 21,8% prevede un ulteriore crollo del Pil del 5% quest’anno e spera nel 2013 per tornare a registrare un timido risultato positivo; l’Italia, con una disoccupazione del 9,3% ma anche un tasso complessivo di inattività del 37,2% parla di un calo dell’1,2% del Pil nel 2012 e un +0,5% l’anno venturo) e sotto la spinta di una ricerca di “rigore” che finora si è tradotta solo in un incremento di tasse e in minor misura in un taglio delle spese (e ancora meno in misure a favore della liberalizzazione di professioni e settori economici o di una maggiore apertura all’internazionalizzazione e una minore burocrazia). Ma è altrettanto evidente che a livello microeconomico, aziendale, il successo o l’insuccesso dei singoli “campioni nazionali” (se ancora ha senso parlare in termini nazionali e potrebbe non averne, non almeno in termini di proprietà degli asset ma semmai di diritti all’utilizzo degli stessi) come pure di milioni di piccole e medie imprese è il risultato di scelte che rispondono a modelli culturali. Un confronto di tali modelli chiarisce dunque quali scelte si siano rivelate corrette, quali stiano mostrando tutti i propri limiti, quali incertezze rimangano ancora da sciogliere.

L’esempio dell’auto. A monte di questa osservazione deve esserne fatta un’altra: la crescita infinita non esiste e continuare a invocare sussidi a suo favore è semplicemente una perdita di tempo, non perché non ci siano più soldi o non ci sia più nessuno disposto a farci credito (nel caso dell’Italia e non solo) come vuole la vulgata comune, ma più semplicemente perché la crisi ha avuto per molti settori maturi origine da un progressivo accumulo di capacità produttiva in eccesso. Soffrono di tale difetto strutturale (dunque non eliminabile con alcun sussidio né dipendente dalla fase del ciclo economico) sia il settore dell’auto sia quello della telefonia, quello dei beni di consumo discrezionali come quello della telefonia e media piuttosto che delle costruzioni, per cui continuare a sussidiare tali settori rischia di aggravare, non di risolvere, gli squilibri alla base della crisi. Focalizziamo l’attenzione sull’auto e sui soli produttori europei e guardiamo ai numeri: Volkswagen e Daimler hanno appena presentato delle trimestrali apparse migliori delle attese, Renault e Peugeot hanno deluso, Fiat è sembrata a metà del guado. Guardiamo meglio ai numeri e a ciò che ci sta dietro: i produttori tedeschi hanno puntato su un costante rinnovo (e ampliamento) della gamma, sono andati crescendo su nuovi mercati come la Cina (che per Volkswagen ormai pesa più della stessa Germania), hanno visto esplodere fatturati e utili ed ora presentano un giro d’affare, trimestrale, di 47,3 miliardi di euro (+26% su base annua) nel caso di Volkswagen e di 27 miliardi di euro (+9%) nel caso di Daimler, con utili netti rispettivamente pari a 3,2 e a 1,4 miliardi. Renault e Psa Peugeot non se la passano altrettanto bene, ma continuano a sperare in una rapida ripresa del mercato europeo, che resta la loro principale arena competitiva, e raggiungono nei primi tre mesi dell’anno un fatturato rispettivamente di 9,5 e di 14,3 miliardi di euro circa, deludendo le attese e vedendo un accumulo di scorte preoccupante (per Peugeot siamo tornati ai livelli del 2008, quando però sul mercato europeo si vendevano quasi un quinto di auto in più di quanto non si faccia ora). Il gruppo Fiat dal canto registra segnali contrastanti: Chrysler mette a segno il miglior trimestre da oltre un decennio con ricavi cresciuti del 25% a 16,4 miliardi di dollari e un utile netto di 473 milioni, ma (anche a causa dello sciopero delle bisarche in Italia) la sola Fiat vede ricavi in calo a 8,7 miliardi di euro e una perdita netta di 273 milioni. Fiat, come noto, sta rinviando un rinnovo più massiccio della gamma a quando la crisi sarà passata, anche per ottimizzare l’impegno finanziario, e per ora si limita a riproporre alcuni modelli Chrysler in Europa con marchi quali Lancia e a cercare di vendere qualche Fiat 500 in America (con più difficoltà di quanto non incontri a vendere i modelli Jeep nel vecchio continente). Il gruppo, che ieri ha precisato dei non sapere ancora prevedere quanto profonda (e duratura) potrà essere realmente la crisi del mercato dell’auto europea ma che per ora ha confermato i propri obiettivi per l’intero 2012, resta inoltre assente (con l’eccezione del Brasile) dai principali mercati emergenti come Cina, India e Russia.

La crisi richiede riforme più che austerità. Come vedete la crisi europea che a livello “sovrano” sembra esclusivamente una crisi di fiducia dovuto all’eccessivo peso fiscale (che è peraltro fuori discussione) e all’assenza di crescita, nasconde anche al suo interno diverse visioni strategiche e di settore, la cui maggiore o minore fortuna incide sulla crescita medesima non meno di fattori “esogeni” come la legislazione, il credito, la burocrazia e la presenza di una maggiore o minore corruzione nella Pubblica Amministrazione nonché un grado di evasione fiscale più o meno tollerata che rischia di rendere il gioco “non fair” e più vantaggioso per aziende meno rispettose delle norme comuni. Di fatto comunque l’esigenza di procedere senza indugio a ulteriori riforme strutturali è evidente, visto che tali riforme hanno consentito alle maggiori aziende tedesche di raggiungere l’attuale competitività. Che sia semplice e che questo possa cambiare qualcosa nello scenario a breve termine è assai dubbio, purtroppo, che sia comunque più sensato che procedere ad un’eccessiva austerità che rischia di fare più male che bene se fine a se stessa è invece quasi certo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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