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Opinioni

L’euro debole aiuta le aziende, ma quanto costa alle famiglie?

Il calo dell’euro in questi mesi sta aiutando le aziende anche in Italia, pesando in misura modesta sulle tasche delle famiglie. Molto peggio sarebbero nuovi rincari fiscali o tagli alla spesa troppo marcati e precipitosi…
A cura di Luca Spoldi
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Sarà l’euro debole il vero “asso nella manica” di Mario Draghi, che domani potrebbe (ma anche no) annunciare nuovi stimoli monetari nel tentativo di rompere l’assedio deflattivo che le politiche di austerità fiscale fortemente volute dalla Germania e dall’eurocrazia hanno finito col rafforzare, fin quasi a far precipitare una ripresa già incerta di suo in una nuova fase recessiva? Può essere, sta di fatto che da quando Draghi ha iniziato a ribadire che la Bce è pronta a prendere “qualsiasi misura” si riveli necessaria per debellare il rischio deflazione, iniettando nuovamente di liquidità le banche europee (la prima Tltro o “Targeted Longer – Term Refinancing Operation”, operazione mirata di rifinanziamento a più lungo termine sarà lanciata questo mese, le richieste per ottenere fondi avendo dovuto essere inviate già entro la mezzanotte di giovedì 28 agosto scorso) o anche lanciando un vero e proprio “quantitative easing” (acquisto direttamente sul mercato di carta finanziaria, presumibilmente titoli di credito cartolarizzati e non titoli di stato), l’euro ha iniziato a indebolirsi, per la gioia delle aziende europee.

Se il picco massimo contro dollaro è stato toccato lo scorso maggio a 1,395, da allora il cambio è calato sino a sfiorare qualche giorno fa quota 1,31, con un deprezzamento del 6%; movimenti analoghi anche se meno accentuati si sono avuti anche contro franco svizzero (che pure viene monitorato dalla Banca nazionale svizzera affinché non si rafforzi troppo, penalizzando ulteriormente un’economia che ha già visto la crescita fermarsi nel secondo trimestre dell’anno), rispetto al quale l’euro è passato da 1,223 a 1,205 (-1,5% circa), contro yen (si è passati quasi 142 yen per euro a circa 137 yen, con un calo del 4%) e contro sterlina, nei cui confronti l’euro è sceso da un massimo di 0,84 toccato a marzo agli attuali 0,79 (sfiorando il -6%). Naturalmente il fatto che l’euro si deprezzi può portare ad una maggiore crescita dei prezzi, ad esempio attraverso un incremento dei costi delle importazioni, ma non è detto che questo succeda né che sia un male (o un bene) in assoluto.

Già il fatto che nonostante un calo che ormai dura da oltre tre mesi dell’euro contro le principali monete l’inflazione sia passata dallo 0,5% segnato a fine maggio allo 0,3% in agosto sta a indicare che le aziende non hanno trasferito gli eventuali incrementi di costi di materie prime e prodotti/servizi semilavorati nei prezzi di vendita di prodotti/servizi finiti commercializzati sui mercati europei. Nel caso di alcuni beni come i carburanti, poi, l’effetto cambio tende ad auto compensarsi, essendo tali materie prime contrattati in dollari: in pratica il prezzo del petrolio tende a salire quando scende il dollaro e viceversa (al di là di tensioni di breve periodo dovute a crisi geopolitiche come quella siriana o ucraina, o a fasi di accelerazione/decelerazione dell’economia). Se non ne siete convinti, verificate: il petrolio costa attorno ai 94 dollari al barile e vale dunque a circa 71,75 euro al barile, mentre a inizio maggio oscillava sui 100 dollari al barile, all’epoca pari a circa 71,95 euro al barile. Nessuna variazione apprezzabile o quasi e infatti i prezzi alla pompa (che peraltro dipendono per oltre il 50% dalle accise fiscali) non sono scesi.

Una modesta inflazione, per tale intendendosi un incremento dei prezzi vicino alla soglia massima “tollerabile” dalla Bce (e dalla tedesca Bundesbank), ossia al 2% annuo, potrebbe cambiare drasticamente, in meglio, lo scenario macroeconomico europeo, consentendo un riassorbimento significativo della disoccupazione? Probabilmente no, ma dato che i rapporti debito/Pil e deficit/Pil sono stati formulati (per decisione politica oltre che tecnica) in base alle variazioni nominali, avere un Pil che cresce sia pure solo per effetto dell’inflazione del 2% l’anno ove i tassi non aumentassero (e finché la Bce manterrà in essere la sua politica “ultra rilassata” i tassi non aumenteranno di certo) consentirebbe con una crescita anche “appena” dell’1%-1,5%, di stabilizzare tali rapporti e farli poi ulteriormente calare attraverso una serie di riforme che da un lato incrementino “l’output gap” (ossia la crescita massima che un’economia è in grado di esprimere senza generare ulteriori aumenti dei prezzi), dall’altro riducano (eliminando sprechi e migliorando la qualità degli investimenti) la spesa pubblica. Il tutto senza dover ulteriormente aumentare la pressione fiscale o violenti e precipitosi tagli alla spesa pubblica, per evitare di uccidere la neonata (se ci sarà) ripresa nella culla.

Insomma: l’euro debole può certamente dare fastidio a chi con l’estero intrattiene rapporti d’affari ad esempio perché è un importatore o perché deve viaggiare molto in paesi “non euro” per riuscire a vendere i propri prodotti o servizi (che peraltro si avvantaggeranno del minor costo che avranno nella valuta estera “più forte”) o anche solo per motivi di studio o di svago. Ma se si saprà dosare bene il mix si otterrà la più volte auspicata "flessiblità" in campo europeo e a risentirne non dovrebbero essere troppo le tasche degli italiani, minacciate piuttosto dalla pioggia di rincari di tariffe, accise e tassazioni che sempre incombe ad ogni autunno sulle nostre teste da troppi decenni a questa parte. Discorso ben diverso sarebbe da fare nel caso di una “svalutazione competitiva” che alcuni economisti e operatori finanziari (e leader politici) continuano a teorizzare come “dividendo pro crescita” di un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro.

A parte che l’opzione non è semplicemente sul tavolo non essendo neppure mai stata inserita nei trattati europei che hanno portato alla nascita dell’euro stesso (e dovendosi dunque creare “ex novo” attraverso trattative presumibilmente né facili né di breve durata), una svalutazione del 30%-40% dalla sera alla mattina della “nuova lira” rispetto all’euro, che comunque difficilmente ci verrebbe concessa, si sentirebbe eccome nelle nostre tasche attraverso una raffica di rincari a catena che a quel punto difficilmente sarebbero comprimibili e rimandabili da parte delle aziende. Sarebbe l’apocalisse? Probabilmente no, ma siamo nel campo della teoria pura e delle probabilità in stile Monopoli. Non so voi ma io non ho alcuna intenzione di andare a vedere come finirebbe nel concreto, perché ho il vago sospetto che a guadagnarci sarebbero in pochissimi (magari i “soliti amici” che anche durante la crisi hanno sofferto ben poco di restrizione del credito e contrazione dei consumi, a differenza della grande maggioranza delle piccole e medie imprese italiane e dei loro dipendenti) e a perderci, chi più chi meno, una platea vasta alla quale rischiamo di appartenere tutti noi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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