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Opinioni

Io, italiano a Londra, vi racconto com’è cambiata la mia vita in ufficio dopo la Brexit

Gli effetti della Brexit in un luogo di lavoro come tanti.
A cura di Redazione
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Barney è addetto allo smistamento postale per gli uffici di una casa editrice nel sud est londinese. Ha cinquant’anni e un aspetto trasandato. Indossa spesso una felpa sporca d’olio, e porta sempre un cappello da baseball il nome della sua casa editrice stampato sopra la visiera.

Lavora da più di vent’anni in questo largo distretto commerciale, dove pestaggi e ubriachi al di fuori dei McDonald’s sono scene frequenti anche alla mattina presto.

Barney ha anche una passione per Donald Trump, e sul muro sopra la sua postazione – a fianco ai poster delle donne nude – ha appeso diverse foto del suo modello politico di riferimento.

Durante la campagna elettorale pre-referendaria ha capeggiato l’ala Leave dell’ufficio (almeno a sensazione quella minoritaria), e ha provato a convincermi della lungimiranza e della logica di questa scelta. Quando ha capito che non avevo potere di voto, era scettico e deluso.

“Let’s make Britain great again!” era il suo motto, e i suoi argomenti pro-Brexit erano i soliti già sentiti: stanchezza nei confronti della burocrazia di Bruxelles e odio nei confronti degli immigrati.

Oggi Barney è stata la prima persona che ho incrociato in ufficio. L’ho visto da lontano e già sfoggiava un sorriso trionfante. L’ho salutato come ogni altro giorno, ma a differenza di sempre era troppo felice e non mi ha riposto. Mi è passato di fianco, mi ha sfiorato, ed è corso verso il suo ufficio.

Questa mattina, alzarsi e scoprire quanto successo è stato duro e, per certi versi, angosciante. Dover uscire, affrontare la solita ora abbondante di treno per andare in ufficio, lo è stato ancora di più.

Incredibilmente per il clima londinese, sulla capitale inglese splendeva il sole. La giornata era calda e soleggiata, ma in fondo il giorno era oscuro e freddo.

L’ufficio lo è stato ancora di più. In un locale semivuoto, vuoi per il fine settimana alle porte e per il fatto che molti colleghi sono in ferie o viaggio di lavoro, soltanto il 20 per cento dello staff era alla postazione.

Ho iniziato a lavorare a tempo pieno in questa casa editrice da due mesi, e da quando mi sono trasferito in Inghilterra lo scorso anno ho avuto molte soddisfazioni. Negli ultimi sei mesi ho avuto molti colloqui e alla fine di un lungo percorso ho scelto l’offerta meno remunerativa, ma nell’ambiente che amavo di più: lo sport.

La giornata di Brexit ha cancellato quasi tutto quell’ottimismo ed è continuata in modo ovattato e surreale. I primi commenti dei pochi colleghi rimasti in ufficio si sono susseguiti a sottovoce perché non sentissi. In realtà, anche se avessero usato un tono differente, avrebbe fatto poca differenza: l’accento inglese non l’ho mai digerito.

Per la prima volta mi sono sentito davvero tagliato fuori, etichettato, emarginato e sradicato da un ambiente e una cultura che mi avevano accolto liberamente e fatto crescere.

In un anno mi sono sentito orgoglioso dei traguardi che ho raggiunto, e mi sono sentito fortunato per avere avuto la possibilità di farlo all’interno di un’Unione Europea che, seppur zoppa e malata, era ancora palpabile.

I commenti a sottovoce della prima parte di giornata hanno lasciato poi spazio ai grossolani tentativi di rompere il ghiaccio e coinvolgermi in una qualche sorta di interazione umana.

“Andrew (questo il mio nome inglese, che ho dovuto tradurre nella cultura anglosassone per non essere continuamente scambiato per una donna e subire un trattamento di serie B): come mai sei cosi silenzioso oggi?”, mi ha chiesto Aaron, il mio collega di desk.

“Ha paura di essere deportato!” gli ha risposto Peter dalla sezione news, aggiungendo: “Oggi Barney ha anche portato la torta per festeggiare Brexit, ma non ne ha data neanche un po’ a Andrew.”

“Andrew, non abbiamo più bisogno delle foto oggi”, mi ha detto Jim, “e in ogni caso forse devi fare le valigie e tornare a casa.”

Umorismo inglese? Arroganza? Soddisfazione cieca e miope? Cattiveria? Tutto insieme, forse.

Nell’irreale silenzio di una redazione altrimenti frenetica, un silenzio interrotto soltanto dal rumore dei tasti del computer e dagli interventi a bassa voce, ho fatto fatica a concentrarmi sul lavoro di tutti i giorni.

Mi sono però ricordato di una delle ultime opere del filosofo tedesco Immanuel Kant, Per una pace perpetua (1795). L’ho cercata online e ho cercato in Kant alcune risposte, come ero solito fare quando lo studiavo all’Università.

Tuttavia, la filosofia, il più delle volte, non regala risposte, ma apre nuovi interrogativi. E’ la sua metodologia di lavoro: continua problematizzazione e dialettica infinita.

In questo trattato, Kant delinea gli articoli preliminari e definitivi necessari all’ottenimento della pace perpetua. La sua riflessione si incaglia nella considerazione della guerra come uno degli strumenti fondamentali per l’eliminazione delle dispute sovra-nazionali.

A chiusura dell’intera opera, tuttavia, Kant si sofferma sulla necessaria costituzione federale di stati liberi che – a suo avviso deve essere stabilita – per garantire la tanto ricercata pace perpetua. Al di fuori di questa unione tra stati, la pace perpetua – crede Kant – è a rischio.

Un’ultima sezione è poi dedicata al diritto di cosmopolitismo che secondo Kant è intrinseco a tutti gli esseri umani. Un codice non scritto e che è uno degli altri fondamenti della sua analisi e che concepisce l’uomo come individuo libero di muoversi ad ogni angolo della Terra. Una riflessione del 1795, ma quanto mai attuale nel giorno in cui il Regno Unito ha deciso di uscire da quella Unione che anche Kant auspicava come necessaria alla stabilità internazionale.

“L'idea di un diritto cosmopolitico – scrive Kant a chiusura della sua opera – non è un modo chimerico e stravagante di rappresentarsi il diritto, ma un completamento del codice non scritto sia del diritto dello Stato che del diritto delle genti, per il diritto pubblico degli uomini in generale, e così per la pace perpetua, verso cui si può sperare di trovarsi in continuo avvicinamento solo a questa condizione.”

Come Kant – la cui leggende narrano che gli abitanti di Königsberg, sua città natale, regolassero gli orologi in base alle sue passeggiate quotidiane – anche Barney è un personaggio solitario e abitudinario. Ogni giorno, alle 13, sale dal seminterrato e si siede ai tavolini dell’angolo cucina, riscalda al microonde un pasto preconfezionato e legge i titoli dei tabloid inglesi, The Sun e The Daily Mail.

Oggi anche l’Europa è un po’ come Barney. Sola, trasandata e carica d’odio per ciò che è diverso. Per forza di cose, instabile e incerta.

Contributo di Andrea Speranza

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