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Opinioni

Io, della generazione a progetto, vi dico perché bisogna lottare per l’articolo 18

Quella sull’articolo 18 è una battaglia di dignità, prima di tutto. E riguarda tutti.
A cura di Roberta Covelli
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La dignità è un concetto strettamente legato al lavoro. Secondo la Costituzione, il lavoratore deve poter “assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (art. 36) e, nell'ambito dell'impresa privata, deve essere rispettata la dignità umana (art. 41). Ventidue anni dopo, nello Statuto dei lavoratori, il primo tema trattato fu proprio quello “della libertà e dignità del lavoratore”.

Dignità: un'idea che abbiamo ormai tralasciato, troppo occupati a cercare di guadagnare il pane, per ricordarci di aver diritto anche alle rose.
Appartengo alla generazione dei contratti a progetto, degli eterni apprendisti, degli stagisti a rimborso spese. Persone per cui è già un traguardo ottenere una retribuzione, da accettare anche se non è proporzionata e dignitosa, come Costituzione imporrebbe.
Ma siamo proprio noi, che difficilmente ne godremo, a dover affermare che non vogliamo e non dobbiamo fare a meno dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Simbolicamente. Perché il reintegro di un lavoratore illegittimamente licenziato è emblema del fatto che il libero mercato (“l'iniziativa economica privata” secondo le parole della Costituzione) non può e non deve violare la dignità umana.

Logicamente. Perché non sono comprensibili le ragioni dell'abolizione: eliminare un diritto (non un privilegio) a una classe di lavoratori tutelati non migliora la situazione di chi è assunto con altri tipi di contratto.

Concretamente. Perché le parole sono importanti, ma i fatti contano più degli slogan. E, prima d'ora, il governo Renzi ha varato un provvedimento, in materia di lavoro: si tratta di un decreto legge, poi convertito nella legge 78/2014, che aumenta a cinque le possibili proroghe del contratto a tempo determinato e, soprattutto, elimina la causalità come requisito di validità del contratto. Dunque, mentre prima, almeno sulla carta, il contratto a tempo determinato doveva essere eccezionale  e, in quanto tale, giustificato da particolari ed esplicite ragioni tecnico-produttive, ora quest'obbligo non c'è più.

E, infine, politicamente. Perché la mia generazione non ha sperimentato la fatica delle conquiste collettive e quasi per contrappasso sembra condannata allo sforzo individuale e quotidiano, per poter restare a galla. Quando, per spiegare la presunta bontà del jobs act, si parla di Marta o di Giuseppe il trucco è proprio questo: eliminare ogni barlume di comunità sociale, esaltare l'individuo come unico ente, espressione massima di libertà. “Non esiste società, solo uomini, donne e famiglie” affermava Margaret Thatcher.

Ci illudono di essere liberi, invece siamo semplicemente soli, di fronte al mondo.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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