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Inflazione in frenata in Europa, per l’Italia un campanello d’allarme

L’inflazione torna a scendere in Eurolandia. La notizia potrebbe sembrare positiva, ma non lo è visto che è dovuta a una crescente incertezza economica che non aiuta un paese come l’Italia perennemente a metà del guado…
A cura di Luca Spoldi
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A solo una settimana dalla riunione della Bce che potrebbe annunciare una ulteriore limatura del tasso, già negativo, sui depositi che le banche europee detengono presso Eurotower e un allargamento (a nuove tipologie di asset o per maggiori importi mensili) o allungamento (di altri sei mesi, al settembre 2017) del programma di quantitative easing già in corso, sono oggi giunte cattive notizie per la Bce: l’inflazione di eurolandia a gennaio è calata a -0,2% annuo dal +0,3% segnato in dicembre, mentre l’inflazione “core” (che non tiene conto dei prezzi di generi alimentari ed energetici, più volatili) frena da +1% a +0,7% annuo.

Si tratta nei due casi delle letture più deboli dal febbraio e dall’aprile dello scorso anno a dimostrazione che neppure il lancio del quantitative easing e la discesa sotto zero dei tassi sui depositi liquidi mantenuti dalle banche presso la Bce è riuscita finora a risolvere il problema di una crescita dei prezzi asfittica quando non negativa. Non che la cosa sia un male per le nostre tasche, anzi, visto che a parità di condizioni questo significa che il reddito disponibile sta tornando ad aumentare leggermente. Se poi si pensa che ormai da oltre un anno la politica fiscale europea è tornata ad essere moderatamente espansiva (persino in Germania), sembrerebbero esserci tutte le condizioni per assistere ad un’accelerazione della crescita.

Ma la crescita non sembra aver alcuna voglia di accelerare, complice un quadro sempre precario delle esportazioni, su cui pesano le incertezze che da mesi spirano dall’Asia, cui Pechino in particolare sta cercando di fare fronte con misure “ortodosse: ancora oggi la Banca del popolo cinese ha annunciato il calo dal 17,5% al 17% del coefficiente di riserva obbligatoria che dal primo marzo le banche cinesi dovranno rispettare, decisione che di fatto inietta liquidità nel sistema e che ha subito fatto flettere lo yuan, già dalla scorsa settimana tornato a scendere leggermente. Non solo: Pechino ha anche annunciato che lascerà crescere il deficit per “finanziare le riforme” che finora sono state molto parziali e ben poco efficaci, visto che eliminare rendite e “privilegi” è un lavoro semplice solo a parole a qualsiasi latitudine.

A far uso dei deludenti dati macro dovrebbe essere Mario Draghi, che nonostante le critiche giunte da più parti continua a ripetere che la ricetta della Bce ha consentito di ridurre il rischio di un black out del credito nel 2011 e da allora sta garantendo la circolazione della liquidità. Liquidità che se non arriva all’economia reale è in parte a causa della politica fiscale (nel frattempo però divenuta in tutta Europa meno “austera”, come detto), in parte per le resistenze che anche nel vecchio continente incontrano riforme che dovrebbero ristrutturare l’apparato economico consentendo di aumentare (o almeno non far diminuire) la crescita potenziale di ciascun paese e di eurolandia nel suo complesso.

In verità oltre alle riforme in sé e per sé il problema, come detto più volte, riguarda la sequenza (ovvero la priorità) delle riforme stesse e la loro portata. In Italia, in particolare, si sarebbe dovuto partire dalla riduzione del cuneo fiscale che allontana l’Italia dall’Europa e da qualsiasi altro paese vagamente competitivo al mondo. Prima si sarebbe dovuto rendere più conveniente (o meno svantaggioso) per le aziende produrre in Italia beni e servizi (più i secondi dei primi vista la naturale transizione di un paese maturo come l’Italia da un’economia trainata dal secondo al terzo settore), poi si sarebbero potuti e dovuti alleggerire i carichi su consumi e patrimonio. Cosa per inciso che la “cattiva” Unione europea ci suggerisce da sempre.

Si sono invece voluti spendere provvedimenti elettorali che hanno riguardato solo una parte del corpo sociale, come il “bonus Irpef” da 80 euro mensili, i 500 euro annui “pro formazione” per insegnanti e studenti, eliminare l’imposizione dalla prima casa. Rinviando di anno in anno ogni riduzione dell’Ires e ogni rimodulazione strutturale dell’Irpef. Risultato: le aziende non hanno avuto alcun vantaggio a effettuare nuovi investimenti, le famiglie hanno in larga parte accumulato l’eventuale “bonus” fiscale ritenendo provvisoria la misura, i giovani (e meno giovani) hanno continuato a trovare con molta difficoltà (e perdere con maggiore facilità) il lavoro, quando l’hanno trovato.

L’Italia che nel 2016 rischia di dover nuovamente far fronte a un indebolimento delle condizioni favorevoli che negli ultimi due anni hanno favorito l’azione di governo, non è molto diversa da quella di due anni fa. Ma siamo tutti invecchiati di due anni, avendo buttato al vento l’ennesima occasione. Per questo anche una notizia potenzialmente positiva come il calo dell'inflazione rischia in realtà di rivelarsi decisamente negativa per il futuro del paese.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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