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Incontro con Morgan per Arancia Meccanica (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Intervista esclusiva con Morgan che ci racconta come ha riscritto Beethoven attraverso i Beatles a la musica elettronica per lo spettacolo “Arancia Meccanica” di Gabriele Russo in scena al Teatro Bellini di Napoli dal 1 Aprile.
A cura di Andrea Esposito
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Dopo la scoppiettante conferenza stampa di Morgan svoltasi sabato 22 marzo al Teatro Bellini di Napoli, condita di dichiarazioni dirompenti come “Beethoven era un sublime macellaio”, oppure “Wendy Carlos – che realizzò le musiche per il film di Stanley Kubrick – proprio non mi va giù”, la curiosità per come l’ex leader dei Bluvertigo avrebbe riadattato la “Patetica” o “l'Inno alla gioia” di Beethoven nel nuovo spettacolo di Gabriele Russo, “Arancia Meccanica”, era grandissima.

E così, il giorno seguente trascorsa una lunga giornata in teatro con la compagnia di Gabriele Russo, Marco Castoldi, in arte Morgan, ci ha invitati a raggiungerlo in tarda serata nel suo albergo per raccontarci, in esclusiva per Fanpage.it che cura anche il backstage dello spettacolo, il tipo di lavoro svolto sulle arie del grande compositore tedesco.

Ma andiamo con ordine: appena arriviamo in albergo uno dei suoi assistenti ci avvisa che Marco (nessuno in privato lo chiama Morgan) sarebbe sceso di lì a poco e che nel frattempo avremmo potuto preparare il set per l’intervista. Dopo pochi minuti però arriva una telefonata che per un attimo fa calare il gelo: “Si è fatto tardi, l’intervista è rimandata”, queste le esatte parole che mi risuonano nella mente. E invece no! “Marco vuole farla di sopra, al pianoforte” esclama l’assistente con un’espressione indecifrabile, a metà strada tra il preoccupato e l’entusiasta. Così chiediamo alla receptionist se può aprirci la sala ristorante dove è situato il suddetto pianoforte: risposta affermativa. “Potere delle celebrities!”, mi sussurra all’orecchio l’operatore che mi accompagna.

Ci fiondiamo verso l’ascensore trascinandoci dietro cavalletti, camere e microfoni come fossero compagni feriti sul campo di battaglia. Non appena giunti al nono piano, il suono del più classico dei campanelli anticipa l’apertura delle porte ed ecco che lui ci appare davanti con un’espressione febbrile: “Allora ragazzi, ci siamo?” esclama impaziente.

È esattamente come te lo aspetti Morgan, esplosivo, vibrante, appassionato. Nemmeno il tempo di raggiungere il pianoforte che inizia a raccontarmi di quanto sia stato emozionante riprendere a studiare Beethoven, di come questa occasione gli abbia fatto venire l’idea per un nuovo progetto discografico… quando sott’occhio vedo il cameraman che mi lancia occhiate taglienti: ha bisogno di qualche minuto per riallestire il set.

Così chiedo a Morgan di aspettare alcuni minuti, “ma certo” mi risponde sgranando gli occhi, poi però aggiunge irrefrenabile: “ascolta questo, dimmi se ti piace” e prendendo posto sullo sgabello inizia a far scivolare le dita sulla tastiera come fosse un prestigiatore di suoni. L’espressione del viso si trasfigura in un istante: gli occhi serrati inseguono le note nel buio della mente, bocca e naso si contraggono come in uno spasmo nervoso: “Questo è Beethoven! Lo senti? È matematica!”.

L’operatore mi fa cenno che siamo “partiti” e che l’intervista può avere inizio. Io, in realtà, sono già in brodo di giuggiole perché nell’arco di pochi minuti Morgan mi ha fatto sentire un po’ di Beethoven, poi i Beatles in Beethoven, i Krafwerk in Beethoven, le melodie pop sempre in Beethoven: potrei anche tornamene a casa. Ma Morgan è un fiume in piena, e mentre con trasporto suona una melodia dolcissima, gli chiedo: “Perché hai detto che Beethoven è un macellaio? Seppur sublime…”, lui quasi si infastidisce per il piglio troppo giornalistico della mia domanda, poi però si interrompe, mi lancia un'occhiata e con aria di sfida mi fa: “Vuoi vedere?” e cambiando completamente sonata, inizia a picchiare i tasti con violenza, con rabbia, con passione, finché non chiude prendendo a gomitate la tastiera. Resto senza parole, stando appoggiato al pianoforte sento nella pancia le vibrazioni funeste delle corde e mi accorgo che mi ha letteralmente macellato. Aveva ragione!

La conversazione, da qui in poi sembrerebbe indelicato chiamarla “intervista”, prosegue per circa un’ora. Dopo un po’ si fa intima, confidenziale, mi racconta di quando accompagnava la messa al pianoforte suonando Bach e Schubert e di come alcune melodie “da chiesa”, non quelle dei grandi compositori, anche se melense e senza nessuna pretesa musicale gli siano al fin fine rimaste dentro. Di una di queste ricorda anche le parole, banali, che mi accenna con autentica commozione: è in questo istante, in quegli occhi lucidi, che intravedo lo spirito dell’artista “maledetto” che è Marco Castoldi, con la sua straordinaria fragilità, il suo genio, il suo tormento. Me ne torno a casa come dopo un incontro di boxe, gonfio di botte, stordito, ma incredibilmente felice.

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