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Opinioni

Il dibattito sull’euro è fumo negli occhi, ecco perché

In Italia (e non solo) si discute di referendum pro o contro l’euro, ma è una narrazione poco attinente alla realtà. Tra petrolio in calo e Cina in frenata i problemi (e le opportunità) hanno poco a che vedere con la sola leva valutaria…
A cura di Luca Spoldi
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Nonostante quanto sta accadendo nel mondo c’è ancora chi in Italia (e non solo) ritiene che la crisi si possa risolvere con un referendum pro o contro l’euro, ennesima conferma che il sistema politico italiano (ed europeo) poco capisce della crisi in atto. Crisi che, ripeto, è anzitutto culturale e pertanto economica, una crisi di regole e di rapporti di forza tra stati appartenenti ad un’unione monetaria che ancora non si è fatta unione politica (e pertanto fiscale, oltre che bancaria), una crisi generata dall’esplodere di una bolla finanziaria (quella del 2007-2008 sui mutui subprime che rischiò di travolgere il sistema finanziario americano, fatto di banche “troppo grandi per fallire” come si scoprì il secondo dopo che si decise di lasciar fallire Lemhan Brothers, neppure la più grande tra tutte), allargatasi alla riscoperta del rischio-emittente sul debito sovrano (quello greco nel 2010) fino a quel momento “occultato” proprio dalla comune appartenenza all’area dell’euro, giunta fino alla situazione attuale attraverso una serie di misure monetarie da parte della Bce in grado solo di “guadagnare tempo” cui non hanno corrisposto adeguate riforme strutturali da parte dei governi, che anzi hanno finito col concentrare le loro politiche (almeno in Italia) quasi solo sul fronte fiscale (interpretando la “repressione fiscale” proposta sciaguratamente dalla Germania come panacea di tutti i mali nel modo peggiore, quello di una “armonizzazione” delle imposte al rialzo che ha finito con lo strangolare ulteriormente le Pmi italiane).

Non mi dilungo oltre: fuori dall’infinita discussione “euro sì, euro no esiste il mondo reale. Nel mondo reale l’Opec ha appena tagliato di 300 mila barili al giorno la previsione della domanda per il proprio petrolio nel prossimo anno, portandola a 28,9 milioni di barili al giorno (contro un tetto produttivo appena confermato a 30 milioni di barili al giorno) e questo fa male alle borse già provate dai brutti segnali in arrivo dall’Asia (in Giappone il rapporto Tankan ha mostrato un calo della fiducia delle imprese nelle prospettive economiche del prossimo trimestre, mentre Nouriel Roubini, economista divenuto celebre per aver predetto la crisi del 2008, ha tagliato al 5,4% le sue stime sulla crescita del Pil cinese l’anno venturo) e dalla tensione crescente in Grecia (dove la curva dei tassi si è invertita, con tassi a 3 anni al 9,46%, a 10 anni all’8,85% e a 30 anni all’8,50%, segnalando un elevato rischio di recessione che potrebbe derivare da possibili elezioni anticipate a gennaio), ma fa male anche alle prospettive di crescita di un paese come l’Italia che non riesce a ripartire da 15 anni e che ha cercato di contrapporre al crollo della domanda interna una crescita dell’export. Anche senza pensare agli avvisi lanciati da Juncker all’Italia.

Non tutto il male viene però per nuocere: l’ulteriore calo dei prezzi del greggio (col relativo potenziale deflattivo che probabilmente indurrà la Bce a rivedere nuovamente le proprie stime su inflazione e crescita, peraltro appena tagliate a inizio dicembre) e il riaccendersi del “rischio Grecia” potrebbero alla fine convincere anche la Germania a dare il suo via libera al “bazooka” che Mario Draghi a parole ha più volte agitato in questi mesi, ossia un programma di acquisto di titoli di stato sul mercato da parte della Bce che se fatto con sufficiente forza (non meno di mille miliardi di euro) potrebbe stimolare i prezzi, interrompere la caduta dei tassi nominali (e la crescita di quelli reali), indurre una crescita dei consumi e in questo modo rafforzare la stentata crescita economica europea. A simili conclusioni sono giunti anche i colleghi analisti di Credit Suisse che in una nota oggi parlano di come siamo ormai in una fase in cui si sta “oliando i meccanismi della crescita europea”.

Secondo gli esperti, infatti, un petrolio attorno o sotto i 65 dollari al barile (stasera il greggio sta oscillando sui 62 dollari al barile a New York) dovrebbe dare un contributo positivo attorno allo 0,5% in termini di crescita del Pil aggregato di Eurolandia. In particolare prezzi petroliferi più bassi dovrebbero far crescere di oltre mezzo punto percentuale il reddito disponibile per consumi discrezionali da parte delle famiglie europee, supportando la ripresa della domanda. Si avrebbe poi un impatto positivo di circa un punto di Pil per quanto riguarda il deficit della bilancia commerciale energetica di Eurolandia (che più che produttore è un consumatore di petrolio), il che potrebbe a sua volta far crescere sia i margini reddituali e gli utili aziendali sia la fiducia di imprese e consumatori. Infine anche per il Credit Suisse, dato che il ribasso dei prezzi del greggio pare destinato a durare nel tempo, la Bce potrebbe rivedere ulteriormente al ribasso le proprie attese sull’inflazione “core” futura e pertanto rompere gli indugi per quanto riguarda il lancio di un “quantitative easing” da annunciare magari già nella prossima riunione del 22 gennaio.

Piccola postilla tricolore: se il governo Renzi non riuscirà a far mutare, in meglio, le previsioni che imprese e famiglie formulano riguardo al proprio futuro, la ripresa potrebbe toccare altri paesi e riguardare l’Italia solo in modo marginale. Ma che l’Italia stia rischiando, anche per motivi demografici oltre che culturali (oltre che a causa del deterioramento dei suoi conti pubblici per eccesso di debito in rapporto alla crescita o se volete per insufficienza di crescita in rapporto al debito pregresso), di diventare un paese sempre più marginale in Europa dovrebbe esservi ormai noto da tempo e ancora una volta non è il tipo di problemi che si possa risolvere solo attraverso la leva valutaria. Sempre che un declino strutturale come quello italiano sembra sempre più essere si possa in ultima analisi risolvere e non soltanto rassegnarsi a viverlo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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