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Opinioni

Il caso Fassina, il dirigente “troppo a sinistra per essere del PD”

Infuriano le polemiche sul responsabile economico della segreteria di Bersani, “colpevole” di aver manifestato la propria criticità nei confronti della linea della Bce e del Governo Monti. L’ala “liberal” dei democratici ne chiede le dimissioni, ma la base sostiene Fassina (forse).
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Caso Fassina

Che Stefano Fassina, 46 anni ed un incarico di responsabile economico del Partito Democratico, fosse diventato da tempo personaggio inviso a molti era ormai cosa tutt'altro che misteriosa. Così come erano noti i tanti dissidi tra "correnti" e aree (più o meno realmente rappresentative) del Partito Democratico con i relativi momenti di tensione e di duro confronto. Tuttavia, quella in atto in queste ore in casa democratica è una vera e propria "resa dei conti", con il dirigente voluto dal segretario Bersani, bersaglio del "fuoco amico" (ammesso che sia possibile definirlo tale) su temi cruciali ed essenziali alla linea complessiva del partito. Come infatti è noto, la componente Liberal del Pd, per intenderci quella che fa riferimento ad Enzo Bianco e Franco Bassanini, ha chiesto le dimissioni del responsabile Economico del Pd con una lettera aperta in cui fra le altre cose si legge:

"Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca d'Italia e poi dalla BCE, bollare come liberiste posizioni ‘liberal' come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato, non e' compatibile con il dovere di rappresentare il complesso delle posizioni assunte dal PD".

All'atto formale dei liberal si aggiungono le critiche (nel merito anche queste) di Pietro Ichino, le cui tesi costituiscono da tempo un vero "nodo" in area democratica:

Il colpo di reni consiste nell'accettare che la costruzione europea implica non solo perfezionamenti delle istituzioni, ma anche vincoli come il pareggio di bilancio per i singoli stati […] Ci troviamo di fronte a una situazione dove il discrimine passa tra chi crede che sia necessario dare questo colpo di reni per allinearsi ai parametri europei e chi crede che non serva.

Ma la questione della lettera della Bce e dei vincoli di bilancio non sono gli unici fronti su cui si combatte una logorante guerra di posizione. Dalla patrimoniale, misura giudicata di fondamentale importanza da Fassina ("Serve un'imposta patrimoniale significativa, ordinaria, che esenti i piccoli patrimoni, per contribuire a colmare il buco di 20 miliardi lasciato dal Governo Berlusconi"), alla questione della reintroduzione dell'Ici, passando per alcune valutazioni di carattere più ampio (leadership e alleanze su tutte), la linea del giovane dirigente è oggetto di critiche feroci e prese di posizione che lasciano poco spazio alla conciliazione. E se per il momento gli altri big del partito, che pure non avevano lesinato critiche a Fassina, glissano sulla questione dimissioni, bollando come "poco opportuna" la lettera dei liberal, la questione resta aperta e molto complessa.

Ma la base democratica è con Fassina?

Anche perché negli ultimi mesi le posizioni di Fassina sembrano aver raccolto un consistente consenso in tanta parte dell'elettorato democratico, che con ogni probabilità si riconosce in una linea "di impronta socialdemocratica che rappresenta la sinistra interna […] e una doppia risorsa per il Pd perché da un lato tiene viva l’opzione di sinistra, dall’altro lascia intravvedere che nel partito si può uscire dagli scontri sui vecchi nomi" (per citare l'editoriale di Peppino Caldarola su linkiesta). Fassina rappresenta in effetti le convinzioni e le aspettative di quella parte della galassia democratica che guarda con sospetto "eventuali derive neo – liberiste" e non ha reciso contatti e legami con il mondo sindacale. Ma allo stesso tempo il suo operato gode di una legittimazione sostanziale dall'approvazione all'unanimità (anche se va ricordato il lungo braccio di ferro con Ichino, che su invito di Bersani accettò alla fine di ritirare la sua proposta alternativa) della sua relazione "Persone, lavoro, democrazia" alla prima (e ultima finora) conferenza nazionale per il lavoro. Un documento nel quale si leggono interessanti considerazioni che ovviamente acquistano un valore enorme alla luce del cambiamento di governo e del preventivato varo di manovre e riforme proprio negli ambiti del lavoro e delle politiche fiscali. Ecco qualche esempio:

Le politiche di rilancio del valore del lavoro e il contrasto alla precarietà non possono risolversi con semplici formule legislative, ma devono consistere in un insieme di interventi di politica economica e sociale con al centro una scelta essenziale: restituire senso, dignità, valore e reddito al lavoro, in tutte le sue forme. […] In tale contesto si devono promuovere efficaci politiche di contrasto alla precarietà, innanzitutto per rendere il costo del lavoro a tempo indeterminato inferiore a quello del lavoro flessibile. […] Il modello centrato sul contratto nazionale di lavoro va riformato, ma il contratto nazionale resta uno strumento irrinunciabile per garantire la tutela del lavoro e regolare la competizione. […] La regolazione della rappresentanza e rappresentatività sindacale è essenziale per garantire la democrazia nei luoghi di lavoro […]

E se da una parte è vero che gli eventi delle ultime settimane hanno di fatto già "obbligato" il Partito Democratico a rivedere in corsa alcune posizioni, dall'altra non si capisce il motivo per il quale Fassina dovrebbe abiurare una linea che porta avanti da anni. Certo, come sottolineato da un esauriente articolo su Il Post, l'esponente democratico è stato spesso protagonista di alcuni dietrofront clamorosi (su Ici e patrimoniale, ad esempio) e pure legittima appare la posizione di Scalfarotto che mette in discussione "l’idea che ciò che è stato deciso dalla maggioranza del partito rappresenti il partito in modo istituzionale e nella sua granitica interezza", tuttavia quello che risulta poco comprensibile è come si possa scatenare "un putiferio fondato essenzialmente sul nulla". Già, perchè è abbastanza evidente che rebus sic stantibus, il vero banco di prova per i democratici sarà costituito dal confronto nel merito sulle misure messe in campo dal Governo Monti. In Parlamento e in campo internazionale si giocherà una partita decisiva per il futuro del Belpaese ed il principale partito del centrosinistra ha una enorme responsabilità, non solo nei confronti dei propri elettori.

In tal senso il fuoco di sbarramento sul fedelissimo di Bersani ha valore solo come "prologo" di quella battaglia finale che le varie correnti e fazioni si preparano a combattere. Come ha notato Menichini su Europa, infatti "il problema, più generale, è quanto danno faccia al Pd il presentarsi come rimorchio recalcitrante di una fase che, se porterà qualcosa di buono, lascerà qualcuna delle riforme liberali che in Italia non ci sono mai state (se non ai tempi della terza via prodiana) e delle quali c’è tanto bisogno". Non solo, perchè allo stesso tempo in casa democratica si gioca la partita delle alleanze e della leadership, in particolar modo in una fase in cui sembra non più rimandabile una "revisione del piano strategico complessivo, dopo il frettoloso appoggio al professor Monti e la rinuncia a prendersi carico da subito dei problemi del Paese".

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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