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I migranti non devono lavorare per dimostrare di “meritare” l’accoglienza

L’idea di consentire ai profughi di lavorare e portare avanti un’attività salariata è senz’altro buona. Purché, però, sia veramente così, in parità e autonomia e non diventi una sorta di impiego coatto per giustificare il nostro aiuto.
A cura di Claudia Torrisi
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La parola che ho letto di più in questi giorni sui giornali è stata "bighellonare". Secondo il vocabolario significa "andare a zonzo senza meta", "girovagare per la città". Non è un verbo che si usa spesso, e quando lo si fa è per lo più in tono un po' scherzoso, quasi canzonatorio. Nonostante ci troviamo a cavallo di Ferragosto e "bighellonare" sia un'azione che potrebbe essere applicata al 90% di coloro che hanno la fortuna di godersi le ferie, questa parola negli ultimi giorni ha raggiunto prime pagine e titoli per indicare ciò che fanno i migranti che vengono portati nei comuni italiani. Ad esempio a Capalbio, dove ne sono stati assegnati cinquanta e si è scatenato un putiferio. Proprio in relazione al caso del paese in provincia di Grosseto, Chicco Testa, frequentatore del luogo di villeggiatura, ha detto in un'intervista al Corriere della Sera che i profughi sono i benvenuti, a patto che lavorino e non stiano, appunto, "a bighellonare tutto il giorno".

Non è ovviamente una considerazione razzistica, io la penso più o meno come Claudio Petruccioli ma con la differenza, se pur sostanziale, di dare un’occupazione a questi ragazzi. Che magari hanno anche abilità particolari, sono bravi in alcuni mestieri. La discriminante è il lavoro. E capisco chi, a Capalbio, esprime perplessità nell'accogliere gente che magari sta a soggiornare senza riuscire a fare niente.

In un articolo su l'Unità, Testa ha poi precisato che, considerato che in Italia "non c’è lavoro nemmeno per i nostri giovani", non si sta parlando di "quel" lavoro, ma dei "tanti lavori che una volta si definivano ‘socialmente utili', che nessuno fa più e certo non mancano" – tipo pulire spiagge e boschi, occuparsi di "fiumiciattoli e torrenti da liberare da detriti e ostruzioni e mille altre piccole cose che riguardano la manutenzione di spazi pubblici e beni comuni".

Questa mattina in un'intervista al Corriere, il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione, ha lanciato l'idea di coinvolgere i profughi in progetti lavorativi, per non lasciare più "queste persone appese in attesa di un destino che cada dall’alto". Il piano non riguarderebbe tutti i migranti, ma solo "quelli che sono legittimamente sul nostro suolo: i rifugiati o chi ha già presentato la richiesta di asilo"; non prevederebbe un obbligo, ma si potrebbe "pensare a un meccanismo premiale" del tipo che chi "mostra buona volontà e capacità di inserirsi nel nostro contesto sociale potrebbe ottenere un’attenzione diversa nell’accoglienza", come ad esempio il permesso umanitario. Pur riguardando lo stesso tema, comunque, la proposta del capo del Dipartimento Immigrazione parte da una posizione e presupposti molto diversi da quelli di Testa – checché ne pensi il secondo.

Ad ogni modo, nonostante parli di "coinvolgimento nel lavoro", Morcone non ha pensato a una vera e propria retribuzione. Niente "paga con tariffe nazionali", infatti, ma un compenso ridotto: "La decurtazione servirebbe per recuperare i costi dell’accoglienza", ha spiegato.

Contro la proposta si è subito scagliato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, secondo cui far lavorare i migranti sarebbe una sorta di insulto ai "4 milioni di italiani disoccupati". Il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha invece detto che "occorre che i profughi diano una mano nelle città in cui vivono, attraverso convenzioni con associazioni di volontariato e realizzando risultati che possano essere di utilità sociale", ma che non si tratti di vero lavoro, perché "la regola è che nei lavori si dà sempre e comunque precedenza agli italiani". L'anno scorso una proposta simile era arrivata proprio da una circolare del Viminale, che chiedeva sostanzialmente ai comuni di far lavorare gratis i richiedenti asilo – chiamandolo volontariato.

L'attuale normativa in materia di rifugiati vieta ai richiedenti asilo di svolgere attività di lavoro retribuito per sei mesi dal momento del loro arrivo in Italia e della richiesta – una specie di "riserva" per verificare la loro condizione. Il fatto che i migranti vengano tenuti in una sorta di limbo, senza sapere che ne sarà di loro, né poter svolgere alcuna attività dietro compenso determina certamente, come ha spiegato tempo fa il senatore Luigi Manconi, "una condizione di smarrimento e aggiunge allo stato di obiettiva marginalità e di ansia per l'esito della richiesta, una situazione di vuoto". Tra l'altro, secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, "l'impatto dei rifugiati sulla crescita a medio e lungo termine e sulle finanze pubbliche dipenderà da quanto efficacemente potranno essere integrati nei mercati del lavoro nazionali", e tra le politiche consigliate c'è anche il "ridurre al minimo le restrizioni per lavorare durante la fase delle domanda d’asilo". L'idea di consentire ai profughi di lavorare e portare avanti un'attività salariata, quindi, è senz'altro buona. Purché, però, sia veramente così in parità e autonomia – ad esempio rispettando i termini di esame delle richieste, o abbassando quello di sei mesi di inattività – sia davvero retribuita, e non diventi una sorta di impiego coatto per giustificare il nostro aiuto.

Il problema, insomma, è il punto di partenza, e cioè continuare a presentare l'accoglienza come un'attività che si nutre di reciprocità. Come se si trattasse di un favore da contraccambiare: sono venuti qui, almeno che si rendano utili. Si tratta di un'idea che sta prendendo sempre più piede ed è difficile da estirpare. Prova ne è che alla a dir poco cauta proposta di Morcone – che, nell'equilibrismo di dover risolvere una questione che diventa sempre più esplosiva, ha parlato di retribuzione decurtata, premi per chi si dimostra migliore – è seguita la risposta secca del ministro dell'Interno: "Ok il lavoro, ma che non sia lavoro perché quello spetta agli italiani", mentre i migranti al massimo possono farlo gratis per ricompensarci.

Pur facendo i dovuti distinguo, e separando la proposta di Morcone dall'appello di Testa, in questo spingere far lavorare i migranti poco o non retribuiti c'è un ragionamento di base: cercare un modo per superare l'ostilità di chi li vede "con le mani in mano". Alfano stesso ha detto che bisogna evitare che queste persone "appaiano un peso per le comunità, che possono pensare che i profughi stanno qui all'infinito senza fare nulla". I migranti, insomma, non devono lavorare per affrancarsi e integrarsi, ma per apparire per lo meno occupati. Il "bighellonare" come atto insopportabile, soprattutto se compiuto da chi arriva qui come straniero. È come semplificare tutto a un eterno presente, delimitato dai nostri confini, che cancella o ignora ciò che c'è stato prima: la fuga da guerre, persecuzioni di natura religiosa, politica, sessuale, da miseria o quant'altro. Capalbio come altri comuni o quartieri di grandi città diventa un territorio circoscritto, dove non venire a "bighellonare" senza titolo.

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