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Hiroshima: il passato che non passa

La tragedia nucleare è stata l’ossessione del secondo Novecento. Una paura incorporata nell’immaginario collettivo come un imminente arrivo del “Giudizio Universale”, frutto di uno squilibrato rapporto tra uomo e tecnologia.
A cura di Marcello Ravveduto
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Avevo poco più di nove anni quando giunse al successo una canzone che sarebbe diventata una delle colonne sonore identificante gli anni Ottanta. Gli esperti, e quelli nati tra gli anni Sessanta e Settanta, avranno, a questo punto, già capito qual è il brano a cui mi riferisco: “Enola Gay” (1981) degli Orchestral Manoeuvres in the Dark (OMD).

Ricordo la melodia demodé anni Cinquanta, arrangiata con sintetizzatori e l’ossessivo kraut-rock spaziale, come una specie di malìa che ti spingeva a ballare dondolando e a sorridere ad ogni ripetizione di quel nome: sembrava la rottura di un tabù in una società bacchettona, nonostante le battaglie per i diritti individuali del decennio precedente, che ancora non aveva preso confidenza con i temi dell’omosessualità. Gay, fino a quel momento, era solo un modo educato per dire “ricchione”, con tutto il portato omofobo del nostro cattolicesimo retrogrado.

Ma non divaghiamo. A rivedere il video oggi ci si rende conto di quanto questo gruppo fosse diverso da quelli coevi della musica pop britannica: indossavano una camicia bianca e un pullover con scollo a V da cui sbucava una cravatta sottile anni Sessanta. Un look volutamente vintage da bravi ragazzi della working class anglosassone. Una replicazione anni Ottanta (come tante ne sono avvenute negli ultimi cinquant’anni) dello stile lanciato dai Beatles. Del resto il gruppo , guarda caso, è formato da quattro ragazzi di Liverpool. Nella clip rudimentale non c’è nessun riferimento al tema trattato nella canzone. Nei circa tre minuti di esecuzione si vedono solo i componenti della boy band, con un primo piano ripetuto sul leader Andy McCluske, proiettati su un celo nuvoloso come se fossero in volo.

E di un volo, infatti, tratta il brano, quello della fortezza B-29 “Enola Gay” che era il nome della madre di Paul Tibbets, il pilota dell’areo. Il bombardiere alle 8.15 del 6 agosto 1945, sganciò “Little boy”, il soprannome affibbiato dall'equipaggio all’ordigno nucleare, che rase al suolo Hiroshima. La città fu scelta come obiettivo primario per la sua importanza militare: nella cinta urbana erano collocati il quartier generale della Quinta Divisione e quello del Maresciallo Shunroku Hata a cui facevano capo l'intero sistema difensivo del Giappone meridionale. Inoltre, era l'unico tra gli obiettivi prescelti che non aveva nei dintorni campi di cocentramento. Sebbene in centro città vi fossero molti edifici di cemento armato, la periferia era congestionata da una miriade di piccole case in legno. Insomma, era potenzialmente ad altissimo rischio d'incendio, per questo già prima del bombardamento atomico si era provveduto, in vista di un attacco americano, ad evacuare la popolazione, passando da 381mila abitanti a 255mila.

L'esplosione della bomba avvenne a 580 metri dal suolo uccidendo sul colpo tra le 70mila e le 80mila persone. Il 90% degli edifici venne raso al suolo e i 51 i templi della città furono distrutti dall’onda d’urto della deflagrazione. Tra i superstiti vi fu Pedro Arrupe, futuro generale dei gesuiti, che si trovava in missione in Giappone presso la comunità cattolica della città. In “Ricordando Hiroshima. La storia di Pedro Arrupe” scrisse: «…vedemmo una luce accecante, come un bagliore al magnesio… Salimmo su una collina per avere una migliore vista. Da lì potemmo vedere una città in rovina: di fronte a noi c'era una Hiroshima decimata… Non dimenticherò mai la mia prima vista di quello che fu l'effetto della bomba atomica: un gruppo di giovani donne, di diciotto o venti anni, che si aggrappavano l'un l'altra mentre si trascinavano lungo la strada».

Dopo tre giorni la storia si ripete. Questa volta tocca a Nagasaki uno dei maggiori porti del Giappone meridionale la cui rilevanza bellica era data dalla presenza di diversificate attività industriali: munizioni, navi, equipaggiamenti militari e materiali bellici. La città, in maggioranza costruita in legno, si era sviluppata senza piano regolatore, cosicché le case erano molto spesso adiacenti ai fabbricati industriali.

Se “Little boy” distrusse Hiroshima, sarà “Fat man” a portare l’inferno a Nagasaki. La bomba esplose a 470 metri d’altezza uccidendo all’istante circa 40mila dei 240mila residenti. Oltre 55mila rimasero feriti. In totale perirono 80mila persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti, e, per “ironia” della sorte, tra questi vi era anche un ristretto numero di sopravvissuti all’attacco di Hiroshima.

Enola Gay, dunque, cambierà per sempre la storia del Novecento introducendo l’ossessiva paura di un conflitto nucleare devastante. Tutti rammentiamo la famosa frase di Albert Einstein: «Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre». Una paura incorporata nell’immaginario collettivo dalla narrazione cinematografica sotto forma di catastrofe planetaria. Un “Giorno del Giudizio Universale” causato, quasi sempre, da generali malvagi e stupidi (americani e sovietici) pronti ad abusare degli armamenti nucleari accumulati.

Tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta la catastrofe nucleare è uno dei principali temi dei film di fantascienza. Come non ricordare il “Dottor Stranamore” di Stanley Kubrick del 1964, o il “Mad Max” di Gorge Miller (con un giovane Mel Gibson) del 1979 o “The day after” scritto da Edward Hume e diretto da Nicholas Meyer per la tv americana ABC, del 1983, e proiettato nelle sale cinematografiche del mondo intero. Lo sgomento arrecato dalla bomba nucleare non era legato alla sola distruzione di massa ma anche all’incapacità di gestire e di configurare in maniera equilibrata il rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Una paura che si manifesta tutt’ora di fronte all’espandersi del dominio digitale.

Un giorno, mentre muovevo in maniera scoordinata gambe e braccia lasciandomi cullare dalla melodia della musica, mio fratello maggiore mi afferra per le mani e dice: «Sai almeno di cosa parla questa canzone?». Gli rispondo: «No, ma è bella». Mi guarda con aria afflitta come di chi sta per impartire una lezione ad un emerito ignorante. «Sai cos’è Hiroshima?». Ne avevo sentito parlare in famiglia ogni volta che in un telegiornale si commentava una notizia relativa alle tensioni Usa e Urss. Come qualsiasi essere umano anche i miei genitori mi avevano trasferito, per induzione psicologica, il terrore di una possibile guerra nucleare. La mia replica fu netta: «Si, la bomba atomica». Aggiunse solo: «Bene, allora leggi il testo in italiano». Quel suggerimento non fu mai accolto un po’ per noia, un po’ per dispetto.

Solo qualche anno più tardi ho scoperto che l’argomento non era passato inosservato negli ambienti musicali underground (hardcore punk, power metal, heavy metal, trash metal) e che anche i Nomadi, oltre al gruppo meno conosciuto Elefante bianco, avevano dedicato una canzone ai fatti del 6 agosto 1945.  Tuttavia, solo grazie al brano pacifista degli OMD, la tragedia di Hiroshima è stata eternata con un successo planetario costruito intorno alla paradossale figura di una madre (Enola Gay) orgogliosa del suo ragazzo trasformato dai superiori in angelo della morte.

Enola Gay, saresti dovuta rimanere a casa ieri,

Oh, le parole non possono dire quel che si prova e le vostre bugie.

Quei giochi che fate finiranno tutti in lacrime un giorno o l'altro,

Oh, Enola Gay, non sarebbe dovuta finire in questo modo.

Sono le 8.15, ed è l'ora che è sempre stata,

Abbiamo ricevuto il tuo messaggio alla radio, condizioni normali e

tu stai tornando a casa.

Enola Gay, la mamma è orgogliosa del suo giovanotto oggi,

Oh, quel bacio che hai dato non sbiadirà mai.

Enola Gay, non sarebbe dovuta finire in questo modo.

Oho, Enola Gay non dovrebbe sbiadire nei nostri sogni.

Sono le 8.15, ed è l'ora che è sempre stata,

Abbiamo ricevuto il tuo messaggio alla radio, condizioni normali e

tu stai tornando a casa.

Enola Gay, la mamma è orgogliosa del suo giovanotto oggi,

Oh, quel bacio che hai dato non sbiadirà mai.

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