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Gomorra, la metafora televisiva del demone criminale

Stefano Sollima, con un impeccabile sincretismo cine-televisivo, ha dato forma ad incubo che scava nel fondo delle paure collettive in cui i camorristi di Tornatore diventano mostri terrificanti simili agli zombie di “The walking dead”.
A cura di Marcello Ravveduto
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Gomorra la serie, al di là delle polemiche scatenate dalle dichiarazioni di Saviano (improvvide perché segnano una presa di posizione rispetto al vissuto di Scampia invece di entrare nel merito della produzione televisiva), è nettamente superiore rispetto al livello medio delle fiction italiane.

Il primo aspetto saliente è che non si tratta della trasposizione dell’opera editoriale (nonostante la collaborazione alla sceneggiatura dell’autore), così come la serie di Romanzo criminale non era né la continuazione del libro, né la traduzione del film per il piccolo schermo.

Sollima ci ha abituati alla creazione di opere cinematografiche che conquistano, nel breve spazio di qualche puntata, una propria autonomia soggettuale. Pertanto è inutile soffermarsi sui testi e i contesti senza prendere in esame l’elemento fondamentale dell’opera audiovisiva: la concatenazione di immagini e suoni determinata dal montaggio delle sequenze.

La macchina da presa compie un movimento up-down calando tra i personaggi e mantenendosi costantemente all’altezza del busto. Solo quando è necessario contestualizzare il protagonista di una storia lo zoom si allarga immergendolo nell’ambiente circostante. La fotografia, inoltre, si avvale dei giochi del chiaroscuro come se gli attori fossero inseriti in un quadro di Caravaggio. Tuttavia, anche quando la luce è piena si nota un riflesso metallico che tende a smorzare la potenza del bagliore in modo da creare un’atmosfera crepuscolare.

Il regista mostra di aver studiato e applicato, con dovizia di particolari, lo stile delle fantasy fiction americane prodotte dalla Fox in cui i personaggi principali sono mostri immaginari (zombie, streghe e vampiri) che funzionano come metafora delle paure collettive scatenate dal no sense della contemporaneità, ma anche banalmente come elemento pulp di eccitazione mediatica.

Se guardate con attenzione la grafica della cartellonistica pubblicitaria vi accorgerete che per molti versi richiama una delle serie più famose e seguite della major americana: “The walking dead”. Lo sfondo grigio, i protagonisti in primo piano, il profilo metropolitano, ma soprattutto le immagini di desolazione, a cui fa da contrasto un lontano punto luminoso, richiamano l’oscurità di un incubo dal quale è impossibile fuggire.

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Le scene, poi, sono virate con un tono grigioverde che appiattisce gli elementi di luce esaltando quelli immersi nell’oscurità. Ma la vera ciliegina sulla torta è l’aver affibbiato al protagonista, Ciro, il soprannome di Immortale. I vampiri, le streghe e gli zombie sono esseri immortali la cui fine può essere decretata solo se colpiti in un preciso punto debole. Eppure, sarebbe interessante chiedersi: fino a che punto questo luogo comune della letteratura horror è influenzato del topos eroico per eccellenza? Achille era immortale ma fu abbattuto da Paride che lo colpì con una freccia avvelenata al tallone destro. Se i mostri delle fiction non possono essere definiti eroi (dal punto di vista dei valori espressi) con la mimesi omerica entrano di diritto nel campo della mitologia contemporanea.

Il sincretismo di Sollima non è, però, citazionismo televisivo. Il regista dimostra di saper integrare le esigenze della serialità con la cultura cinematografica statunitense e italiana. Quando Jenny ammazza il cameriere sembra fare il verso a Joe Pesci in “Quei bravi ragazzi” di Scorzese.

Le scene in carcere di don Pietro Savastano, invece, ricalcano il Cutolo di Tornatore ne “Il camorrista” (il rispetto, i giovani che lo ammirano, i secondini corrotti e soprattutto la scena del rivolta). Anzi Sollima sfrutta a suo vantaggio il cortocircuito tra cinema e televisione generato dal film in questione: la pellicola del regista siciliano deve il suo duraturo successo alla continua riproposizione delle Tv campane che lo hanno trasformato in un’opera di alfabetizzazione all’immaginario camorristico.

Il playmaker della produzione Sky, come la maggior parte dei cineasti della nuova generazione, basa la sua narrazione sulla forza del flusso di immagini (potenziate dalla tecnologia digitale) e non sul testo scritto della sceneggiatura, con una retorica che punta espressamente a conquistare un pubblico trasversale (quello esigente dei cinefili e quello meno esperto dei consumatori delle Tv commerciali). La cifra stilistica si adegua all’obiettivo: allargare l’audience per conquistare il mercato televisivo internazionale.

Sono anche convinto, vista la qualità della produzione e la capacità di modulare gli episodi a seconda delle aspettative del pubblico, che la serialità sarà sfruttata anche per quietare le polemiche scatenatesi all’avvio della prima stagione. Del resto, se proprio vogliamo calarci nel contesto, la fiction è terminata nel momento in cui sta per iniziare la fase più calda della faida. Ci sarà, quindi, tutto il tempo per inserire, nel corso dei nuovi episodi, momenti dedicati alla società civile e alle sue scelte di resistenza.

Intanto, non va sottovalutata la capacità del regista di aver saputo alimentare una serie di spunti di riflessione neorealistici che arricchiscono la trama: i camorristi sono padri di famiglia prima ancora che criminali; i boss sono a tutti gli effetti protagonisti del capitalismo finanziario globalizzato; le donne hanno conquistato un ruolo di primo piano nell’organizzazione camorristica; la Spagna è il paese da cui si controllano le rotte del traffico di droga; la famiglia naturale si intreccia a quella artificiale del clan; i consumatori di stupefacenti sono trattati come animali; la violenza e l’assenza di rispetto delle nuove leve camorristiche; la religiosità pagana dei capoclan; la simulazione di patologie nevrotiche dei condannati al 416 bis; il rap come nuova colonna sonora del “ghetto” napoletano; la vittimizzazione di cittadini innocenti. Tutto questo, e altro ancora, è il brodo culturale di un ambiente infernale in cui, tra tradimenti e omicidi efferati, nessuno si salva.

Sollima, a differenza di Saviano, con la concretezza delle immagini spazza via ogni polemica: mentre i detrattori ritenevano sbagliato raccontare una storia di dieci anni fa perché Scampia è cambiata, nel dialogo della prima scena della prima puntata si fa un riferimento diretto a facebook (il social network nel 2004 era ancora un embrione digitale) ribadendo un dato ormai acclarato: Gomorra è sempre qui e non necessariamente a Scampia perché non riguarda la guerra tra due clan napoletani ma è la metafora del male che assume la forma del demone criminale.

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