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Opinioni

Gli imprenditori: rinunciare ai contratti nazionali per uscire dalla crisi

Per rilanciare produzione e posti di lavoro è necessario superare la contrattazione collettiva nazionale. E’ la proposta di un piccolo imprenditore del Nord Est, Angelo Piccinin, che potrebbe far proseliti. Ma che richiederebbe una vera rivoluzione…
A cura di Luca Spoldi
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La crisi in cui si dibatte l’economia italiana dal 2009, apparentemente senza che nessuno sappia o voglia trovare il bandolo della matassa, è una crisi di domanda accentuata dalla scelta del “rigore” imposta dalla Germania ai partner europei in risposta alla crisi del debito del 2010-2011. Ciò premesso è interessante osservare come da più parti si propongano come soluzioni una serie di interventi che andrebbero/andranno a incidere dal lato dell’offerta, vuoi attraverso la riduzione e (si spera) riqualificazione del credito bancario (a luglio le banche hanno tagliato del 2,6% su base annua i prestiti al settore privato, media di un -3,9% dei prestiti alle imprese e di uno 0,8% di quelli alle famiglie), vuoi attraverso una riduzione e (si spera) riqualificazione della spesa pubblica (“spending review”) ovvero attraverso un calo del costo dei fattori capitale (attraverso il congelamento dei tassi a brevissima scadenza a livelli prossimi a zero da parte della Bce) e lavoro (con la riduzione dei salari, stante un “cuneo fiscale” che il governo ancora deve iniziare a ridurre nonostante i molti proclami in tal senso) o ancora attraverso il varo di regole di funzionamento della “macchina” pubblica (e privata) più snelle e meno burocratiche.

Che queste ricette possano da far uscire l’economia italiana dal guado è difficile dire, molti e contrastanti essendo i pareri al riguardo, che siano destinate a cambiare lo scenario entro il quale si intratterranno i rapporti economici tra imprese e lavoratori è certo. Negli ultimi giorni ha ad esempio ripreso vigore l’idea, periodicamente riproposta a parte delle aziende, di collegare i salari dei lavoratori dipendenti unicamente o quasi  a risultati e produttività, in pratica capovolgendo il quadro attuale che vede i contratti collettivi nazionali pesare fino al 90% del salario lordo (mentre solo il 10% è legato al settore e allo specifico luogo di lavoro), lasciando loro solo il compito di individuare una quota minima di salario “fisso” e una più robusta compartecipazione dei lavoratori ai risultati aziendali, aumentano in sostanza la componente “variabile” del salario.

A riportare l’argomento sotto i riflettori è stato un “piccolo imprenditore del Nord Est, Angelo Piccinin, titolare del mobilificio Santa Lucia di Prata (Pordenone), che ha chiesto ai suoi 140 dipendenti di accettare un taglio dei salari attraverso una revisione della contrattazione su base trimestrale che comporterebbe una “temporanea” rinuncia al sistema contrattuale nazionale, per salvare produzioni e posti di lavoro. L’idea di Piccinin è di legare le retribuzioni dei propri dipendenti aireali e oggettivi risultati economici raggiunti dall’azienda” visto che semplicemente “non è più possibile redistribuire ricchezza che non si produce più”. Un punto che viene sollevato, si badi, non perché l’azienda sia in crisi (anzi Piccinin premette che il suo discorso ha senso proprio “che l’azienda è in equilibrio”) ma perché ritiene necessario non proseguire più in “questo tremendo errore” (la contrattazione nazionale) che “in poco tempo” riporterebbe l’azienda, secondo il suo titolare, “nella stessa situazione di prima. Se non peggiore e costretti a chiudere”.

Siamo alle solite, con le imprese che “socializzano” oneri e perdite dopo aver per anni “privatizzato” gli utili (tentando di reintrodurre il “cottimo”), o c'è del buono nelle proposte di Piccinin? Anche se a dubitare ci si becca quasi sempre, su questo punto è difficile dare torto all’imprenditore, essendo proprio la rigidità del contesto normativo italiano uno dei principali nodi irrisolti del nostro mercato del lavoro. Di fatto voler omologare ad un unico contratto collettivo (strumento ideato in un ben differente contesto storico ed economico rispetto all’attuale e allo scenario futuro ad oggi prevedibile) è come cercare di far indossare a tutti un abito di “taglia unica”: prima o poi a qualcuno l'abito non andrà proprio. La crescente parcellizzazione e specializzazione del lavoro, l’emergere costante di nuove mansioni e professionalità “non contrattualizzate”, la disomogeneità delle condizioni competitive delle singole realtà produttive (sia settoriali sia territoriali) tendono tutte a creare forme di divarificazione anche negli obiettivi professionali e pertanto retributivi dei lavoratori.

Per superare simili disomogeneità e tener conto della diversificazione di obiettivi anzidetti occorrerebbe tuttavia una vera riforma costituzionale o meglio la piena attuazione di due articoli (l’art. 39, sulla libertà di organizzazione sindacale, e l’art. 36, relativo al diritto ad una retribuzione che sia “proporzionata alla quantità e qualità” del lavoro e al tempo stesso “sufficiente” ad assicurare ad un lavoratore ed alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”). Finché quest’ultimo dettato sarà nella pratica identificato nei “minimi retributivi” stabiliti appunto dai contratti collettivi nazionali stipulati unitariamente dalle tre maggiori sigle sindacali, Cgil, Cisl e Uil, la componente del salario identificata come una sorta di “assicurazione” per il futuro continuerà a prevalere su quella parte che dovrebbe invece andare a premiare il merito e/o a tener conto del momento più o meno florido attraversato dall’economia e dalla specifica impresa (o settore).

Premessa indispensabile per evitare che l’accettazione di contratti in deroga” alla normativa nazionale si trasformi in un patto leonino, ipotesi tutto meno che improbabile in un paese con una disoccupazione del 12,6% complessivo  (a fine luglio) ovvero del 42,9% tra i giovani di 15-24 anni in cerca di lavoro sarebbe a sua volta che un simile accordo fosse sottoscritto da rappresentanze sindacali “locali” votate da un’assemblea dei lavoratori (iscritti o meno ai sindacati nazionali) così da arrivare ad un fattivo “federalismo produttivo-sindacale” in grado di evitare che una delle due parti prevarichi l’altra, indipendentemente dalla fase economica del momento. Sembra semplice, non lo è affatto in un paese che a parole vuole essere innovativo ma si dimostra ogni giorno di più conservatore e profondamente diviso al suo interno tra chi ha acquisito una serie di diritti e intende (anche legittimamente) tutelarli fino all’ultimo “costi quel che costi” e chi da tali diritti è escluso.

Servirebbe in sostanza un nuovo e autentico patto sociale che al momento non pare ancora essere stato raggiunto, complici errori e diffidenze di entrambe le parti, tanto che le prime critiche alle richieste di Piccinin sono giunte proprio da un suo dipendente, Gino Coran, che in una lettera ha ribattuto come ci sia “un piccolissimo dettaglio” che l’imprenditore ha omesso: “un dipendente della sua azienda guadagna mediamente 1200 euro al mese” e se accettassero la sua proposta “molti lavoratori, magari con famiglia a carico”, dovrebbero “sbarcare il lunario con 840 euro mensili”. “Me lo sa spiegare il signor Piccinin – conclude Coran – come faranno questi poveri diavoli a pagare le tasse, a mandare a scuola i figli, a mettere sulla tavola tre pasti al giorno, a pagare l’affitto, magari il mutuo stipulato in periodo di vacche grasse, le spese di manutenzione della casa, le bollette e i balzelli vari?

In pochi mesi, paventa il lavoratore, “l’intera economia nazionale sarebbe ridotta al collasso”. Scenario che non si può certo escludere a priori, anche se un’uscita (al ribasso) sembra essere già stata individuata: si deflaziona l’economia abbattendo il costo del lavoro attraverso una riduzione dei salari nominali, riflazionandola con un indebolimento del cambio legato a un costo del denaro vicino a zero (per le banche), si forza, con il calo dei rendimenti netti, una conversione del risparmio in consumi, si accetta l’idea di un graduale, prolungato, inevitabile impoverimento di vasta parte della popolazione.

Incidentalmente la ricetta suddetta rischia pure di aumentare il divario tra gli “happy few” e i molti “neo poveracci”, ma che ci volete fare, son cose che capitano quando per vent’anni si è detto di voler cambiare tutto per riuscire a non cambiare niente, no? Con la complicità o l’omertà di più o meno tutto il corpo politico, economico e sociale, che solo ora sta iniziando, in parte, ad accorgersi di come non sempre la realtà corrisponda ai  sogni e ai desideri. Specie quando non ci si ingegna di trovare soluzioni per tempo e si finisce col subire scelte imposte da altri nell’interesse prioritario proprio (come ovvio che sia).

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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