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Giornata Mondiale del Migrante, Padre Mosè “l’angelo dei profughi” si racconta in un libro

Lettura consigliata per la Giornata Mondiale del Migrante del Rifugiato 2017: “Padre Mosè. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza” (Giunti), il racconto sulla storia dell'”angelo dei profughi” candidato al Nobel per la Pace 2015.
A cura di Redazione Cultura
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Padre Mosè, Don Mussie Zerai
Padre Mosè, Don Mussie Zerai

Se c'è un libro da consigliare, in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2017 di domenica 15 gennaio, è "Padre Mosè. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza" di Don Mussie Zerai e Giuseppe Carrisi. In uscita per l'editore Giunti, in questo appassionato racconto "l'angelo dei profughi" si racconta a partire dal suo viaggio in Italia, a soli 17 anni, fino al ruolo che oggi ricopre attraverso la Onlus Habeshia, fondata nel 2006, grazie a cui offre aiuto a migranti, profughi, rifugiati e svolge una puntuale attività di denuncia, portando alla luce tragedie e drammi dimenticati, responsabilità, silenzi e omissioni.

Don Zerai, soprannominato “l’angelo dei profughi”, è stato candidato al Nobel per la Pace nel 2015, inserito dal Time tra le 100 personalità più influenti del 2016 nella categoria “Pionieri”. Ed ha deciso di affidare la sua testimonianza a una conversazione con Giuseppe Carrisi,  giornalista Rai, scrittore e documentarista, da anni si occupa dei proble­mi dei paesi in via di sviluppo, in particolare dell’Africa, e ha realizzato numerosi reporta­ge da zone di guerra.

Il racconto si dipana sin da quando, migrante tra i migranti, Padre Mosè ha compiuto il suo viaggio da Asmara a Roma nel 1992, appena 17enne. Da allora, da quando è arrivato – solo – nel nostro Paese, non si è mai fermato. Il suo legame con emarginati e immigrati è cominciato alla stazione Termini, dove in tanti cercavano soccorso e rifugio e dove Mussie ha trovato la sua strada, facendosi aiutare e aiutando gli altri.

Aiutare dieci, venti, cento profughi che sbarcavano in Italia a ricostruirsi un’identità rischiava di essere poca cosa di fronte alle centinaia o addirittura migliaia di altri disperati che la morte fermava prima. Dovevo fare di più. Aiutarli a evitare questo destino. Strapparli dalle mani insanguinate dei nuovi negrieri.

Scritto a penna sulle magliette, inciso nell’interno delle stive, sussurrato di bocca in bocca, spedito via sms da un continente all’altro, quello di Don Mussie Zerai, per tutti ormai Padre Mosè, non è un numero di cellulare qualunque. È l’appiglio estremo, l’ultima traccia di umanità alla quale aggrapparsi per i molti che affrontano Il viaggio. Dalle carrette del mare, dai container arroventati nel cuore del Sahara, dai lager libici, dalle carceri egiziane o dai campi profughi del Sudan, i migranti chiamano e Don Zerai risponde. Sempre. Allerta la Marina militare perché soccorra i barconi, si mette in contatto con le famiglie per ritrovare le tracce perdute, conforta, raccoglie le invocazioni, sollecita le istituzioni. In questi anni sofferti e turbolenti in cui l’Italia da porto di partenza si è fatta approdo, il suo nome è diventato sempre più noto.

La sua voce, come la sua volontà, è sempre ferma: “È una sfida da accettare senza esitazioni, perché è in gioco il modo stesso dello ‘stare insieme’ che si è data la democrazia. Se non si accetta questa sfida si rischia di imboccare una strada in ripida discesa alla fine della quale c’è il buco nero della negazione dei diritti fondamentali dell’Uomo. Perché oggi tocca ai profughi e ai migranti. E domani?”.

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