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Giornata della Memoria: la storia di Sergio, da bambino a cavia umana di Auschwitz

Ricordare non basta. Per lenire il dolore dell’immane tragedia bisogna rendere le nuove generazioni agenti di memoria collettiva. Auschwitz non è solo un simbolo o un monito ma è anche una “reminiscenza” perenne che ci ricorda quanto l’olocausto sia una ferita ancora infetta che rischia di macchiare i valori della civiltà euro-mediterranea. La storia di Sergio da bambino a cavia umana dell’orrore nazista.
A cura di Marcello Ravveduto
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Una scuola, un’aula, un libro, una professoressa. Il mio primo impatto con la shoah è avvenuto in primo liceo. L’insegnate aveva tra le mani un’antologia e girava tra i banchi portando il segno in modo che ognuno di noi potesse leggere un rigo del componimento. Alla fine chiamò una delle ragazze più attente e le fece leggere l’intero testo tutto d’un fiato:

«Son morto con altri cento/ Son morto ch'ero bambino/ Passato per il camino/ E adesso sono nel vento,/ E adesso sono nel vento./ Ad Auschwitz c'era la neve/ Il fumo saliva lento/ Nel freddo giorno d'inverno/ E adesso sono nel vento,/ E adesso sono nel vento./ Ad Auschwitz tante persone/ Ma un solo grande silenzio/ È strano, non riesco ancora/ A sorridere qui nel vento,/ A sorridere qui nel vento./ Io chiedo, come può un uomo/ Uccidere un suo fratello/ Eppure siamo a milioni/ In polvere qui nel vento,/ In polvere qui nel vento./ Ancora tuona il cannone,/ Ancora non è contenta/ Di sangue la belva umana/ E ancora ci porta il vento,/ E ancora ci porta il vento./ Io chiedo quando sarà/ Che l'uomo potrà imparare/ A vivere senza ammazzare/ E il vento si poserà,/ E il vento si poserà./ Io chiedo quando sarà/ Che l'uomo potrà imparare/ A vivere senza ammazzare/ E il vento si poserà,/ E il vento si poserà».

Poi mi chiamò alla lavagna e cominciò a dettare alcune frasi:

«Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga».

«Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell'aria».

«C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo».

«Oggi io penso che, se non altro per il fatto che Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell'ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi».

Tornato al mio posto, la professoressa prese a narrare la storia di Primo Levi. Era una donna austera, quasi dura, ed era giunta al suo ultimo anno di insegnamento prima della pensione. Ci guardava con occhi di ghiaccio che immediatamente mutavano in lampe di fuoco al minimo rumore o sommovimento della classe.

Ricordo il silenzio che cadde in quella stanza adibita ad aula mentre ci raccontava il processo di Norimberga e gli orrori dei campi di sterminio. Uomini, donne, bambini, anziani, malati tutti destinati a diventare cenere a causa di una “colpa immonda”: professare la religione ebraica.

Per tutto il tempo tenne la sua postura rigida, rimanendo seduta dietro la cattedra; poi, d’un tratto, si alzò e uscì per qualche minuto. Al rientro aveva gli occhi umidi e le spalle curve come se fossero schiacciate da un peso troppo gravoso. Riprese a parlare: «Si chiamava Sergio e aveva solo sei anni». Così cominciò a rievocare la storia del piccolo De Simone, figlio di un ufficiale della Marina militare, Eduardo, e di Gisella Perlow, di origine slovena; lui cattolico, lei ebrea.

Nell’agosto del ’43 la famiglia, che viveva a Napoli, si rifugiò a Fiume, dove i due coniugi si erano conosciuti, per sfuggire ai sempre più frequenti bombardamenti. Il 21 marzo del ’44, a causa di una delazione, otto componenti della famiglia De Simone-Perlow (tra cui Gisella, Sergio e due sue cuginette di sei e quattro anni – fortunatamente sopravvissute –) furono deportati ad Aushwitz. Giunti a destinazione, dopo sei interminabili giorni di viaggio in condizioni bestiali, Sergio fu internato nella “Baracca dei bambini”. A novembre venne scelto dal dottor Mengele come cavia umana per alcuni esperimenti di immunologia, privi di qualsiasi valore scientifico, che avevano l’obiettivo di trovare una cura per la tubercolosi polmonare.

Il piccolo De Simone fu trasferito al campo di Neuengamme insieme ad altri diciannove bambini (dieci maschi e dieci femmine) e qui gli inocularono, a più riprese, i bacilli tubercolari. Ai primi di marzo del 1945 i bambini, ammalati e febbricitanti, subirono l’asportazione dei linfonodi ascellari che, secondo le malsane teorie dei medici nazisti, avrebbero dovuto produrre gli anticorpi contro la tubercolosi. La professoressa ci mostrò persino la foto del bambino rasato a zero, a torso nudo, con il braccio destro alzato per mostrare l'incisione all’ascella. L’esperimento, come potete immaginare, fu un totale fallimento.

Nell’aprile del ’45, con gli alleati ormai alle porte, da Berlino partì l’ordine di far sparire ogni traccia delle operazioni compiute. Sergio e gli altri bambini furono trasferiti nella scuola amburghese di Bullenhuser Damm: prima gli iniettarono una dose letale di morfina, poi l’impiccarono alle pareti dell’aula e infine riportarono i cadaveri a Neuengamme per la cremazione.

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Quando il racconto terminò la classe rimase ammutolita. L’aula, che per noi era luogo di formazione scolastica e di educazione ai valori della democrazia repubblicana, per quei bambini era stata spazio di morte, atroce e violenta.

La professoressa, notando il nostro sgomento, raddirizzò le spalle, come se quel peso fosse svanito, e ci guardò per la prima vola con dolcezza dicendo: «Ragazzi miei, vi prego, vi prego, non dimenticate».

Dopo una settimana da quella lezione, rientrando a casa, appresi dal telegiornale che Primo Levi si era tolto la vita. Ebbi un gesto di stizza, sintomo di un’inquietudine che non sapevo giustificare. Ora, a quasi trent’anni di distanza, so di cosa si trattava: il ricordo, se non diventa memoria collettiva, non lenisce il dolore ma diventa lama tagliante che, giorno dopo giorno, squarcia l’anima fino ad annullarla e con essa il corpo in cui vive.

Raccontando la storia di Sergio, l’insegnante sentiva di aver portato a compimento la sua missione pedagogica mutando il ricordo (personale o familiare – per pudore non ho mai voluto approfondire) in testimonianza. Prima di andare in pensione aveva portato in dono ai suoi alunni la possibilità di esercitare il libero arbitrio divenendo agenti di memoria collettiva al fine di restituire emblematicamente a quella spoglia aula scolastica la luce della vita contro le tenebre della morte.

Da allora ho imparato che la memoria non è storia, ma la storia non può fare a meno della memoria per difendere e rinnovare, nel solco della pace e della integrazione sociale, la civiltà euro-mediterranea.

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