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Gennaro Savastano, un boss fasullo. Una caricatura del Corvo Di Lauro

La figura del figlio del boss subisce una profonda trasformazione psicologica nel corso delle puntate: da adolescente viziato a uomo patologicamente violento. Nello schema narrativo non occupa il ruolo del cattivo ma quello della caricatura fumettistica: un dark man privo di carisma che ha il dono di mutare la drammaticità del contesto in una ridicola farsa.
A cura di Marcello Ravveduto
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Gennaro Savastano, detto Genny, è il figlio del boss Pietro, il mammasantissima del quartiere. Appare immediatamente come quei figli dei capitani d’industria che non hanno bisogno di occuparsi di fatturati e transazioni poiché il loro futuro è affidato alla successione familiare.

È l’incarnazione di un’antica legge popolare secondo la quale l’erede designato di un grande casato è quasi sempre un inetto dissipatore del patrimonio accumulato. Del resto gli affiliati gli portano un rispetto “relativo”, ovvero lo considerano semplicemente “il figlio di”, incapace di mantenere le redini del clan. Per questo, quando il padre finisce in galera, gli navigano intorno come pescecani famelici.

Il personaggio subisce, più degli altri, una mutazione psicologica che trasforma le sue debolezze in una perversa ambizione di potere caratterizzata da un fondo di rabbia patologica.

Il viaggio in Honduras segna il confine tra un prima e un dopo, plasticamente raffigurato dal cambio di look: dalle sembianze di bamboccione griffato passa allo stile “ultimo dei moicani”. È partito con le paure di un adolescente viziato ed è tornato con i fantasmi di un uomo malato (basti pensare alle voci interiori che lo inquietano, frutto delle pressioni fisiche e psicologiche subite dai narcos centroamericani).

Un uomo che, nonostante tutto, non riesce a deporre la tara di “figlio di papà”: colma l’assenza di carisma con l’uso smodato della violenza, circondandosi di giovani adulatori senza scrupoli. Un’evoluzione abbastanza comune nei livelli apicali delle nuove leve camorristiche. I suoi ragazzi, a differenza dei vecchi affiliati, non agiscono avendo come obiettivo principale la tutela del clan ma sono mossi unicamente dalla conquista del potere e del relativo benessere.

Gennaro è un ragazzo abituato ad ottenere tutto ciò che desidera. Anche quando vuole conquistare la bambolina che gli piace sfrutta l’influenza del clan per fare colpo su di lei. La scena del concerto di Alessio sembra la parodia in salsa neomelodica di una serata all’Opera.

https://www.youtube.com/watch?v=qkipA7CZmQ4

Genny e la ragazza sono seduti su un balcone, di una delle palazzine controllate dalla famiglia, come se fossero nel palchetto d’onore del San Carlo. Invece di un famoso tenore sale in scena il cantante neomelodico più gettonato in città dedicando una delle sue hit alla “femmina” del rampollo. Tutto il quartiere si è mobilitato per rendere la serata speciale.

Con un immagine la fiction conferma e radica la sensazione che la musica neomelodica sia prevalentemente ascoltata da ambienti marginali prossimi alla camorra. Certo, Alessio non fa altro che cantare ma il suo ossequio sembra quello di Caruso verso Al Capone ne “Gli intoccabili di Brian De Palma.

Il Genny, precedente alla trasformazione, è bloccato da una fanciullesca innocenza incompatibile con il contesto in cui vive. Vorrebbe essere come il padre – modello ineguagliabile – ma ha timore di crescere e di abbandonare lo status di principe ereditario.

La morte lo spaventa. Quando è sottoposto alla prova del fuoco crolla non riuscendo a sopportare la pressione tra ciò che vorrebbe essere e ciò che in realtà è.

L’incidente in motocicletta è la metafora del suo destino: corre, corre, corre nella speranza di arrivare primo contando sulle sue sole forze, ma perde il controllo del mezzo e si schianta, contro un altro veicolo, al centro di un quadrivio per non aver rispettato il rosso del semaforo.

Gennaro vuole bruciare le tappe ma non ha le capacità per farlo. Il comando, con le sue regole da rispettare, lo irrigidisce e spaventa determinando un conflitto mortale. È immaturo e reagisce istintivamente senza riflettere sulle conseguenze. Dalla deriva dell’eterno fallito cerca di salvarlo la madre spedendolo in Honduras.

Il viaggio è importante per diversi motivi: si indica nel centroamerica il vertice del narcocapitalismo; si racconta una modalità reale di compravendita di grosse partite di droga: l’organizzazione acquirente deve lasciare in ostaggio un suo uomo finché non viene consegnato il denaro necessario al pagamento della merce; il ritorno segna la maturazione criminale di Genny.

Una crescita rapida e piena di lacune caratteriali che, da come si atteggia il personaggio, serve agli autori per introdurre, seppure senza un’esplicita imitazione, la figura di Cosimo Di Lauro, figlio del boss Paolo, divenuto reggente del clan dopo l’arresto del padre.

Anche Gennaro, ora, è alla guida della famiglia e si presenta come un dark man: cresta aggressiva, giubbino di pelle, ciglia aggrottate, perennemente diffidente e violento, come quando ammazza il cameriere solo perché gli ricorda il soprannome affibbiatogli dai compagni di scuola.

Eppure, continua ad avere paura. Si fa scudo con un nugolo di coetanei temendo che i più anziani possano deporlo per manifesta incapacità.

Non si comporta come il leader di un sodalizio criminale ma come il capo di una tribù metropolitana assetata di sangue che lotta sia contro lo Stato, sia contro gli avversari interni ed esterni senza nessuna distinzione.

Il sistema delle regole consuetudinarie viene stravolto: l’abbandono della casa padronale, per andare a vivere con i suoi uomini in un appartamento delle palazzine, indica la destrutturazione della gerarchia secondo la quale il boss non si mischia agli affiliati per non subirne la diretta influenza.

Si scatena, così, una guerra generazionale per il controllo del clan tra gli uomini di don Pietro e i ragazzini del “Moicano”, i quali, a differenza degli adulti, sono in preda al furore della tossicomania.

Con l’ingerenza nelle elezioni comunali di Giuliano (perché si è scelto proprio questo comune?) e il tentativo di ripristinare il dialogo con i nemici di sempre vuole dimostrare, però, di essere in grado di guidare con polso fermo l’organizzazione (proprio come aveva fatto con la motocicletta).

Non si rende conto, intanto, (confermando l’ingenuità di bambino viziato) delle trame ordite alle sue spalle, proprio a causa di una manifesta mancanza di autorevolezza criminale (per ottenere la quale non basta l’uso smodato della violenza).

Gennaro/Cosimo viene presentato come il vendicatore tenebroso di un fumetto metropolitano il cui l’atteggiamento da duro, privo di etica criminale, è una stonatura all’interno del coro camorrista. La sua figura tozza mal si addice al ruolo assegnatogli, mettendo in ridicolo, scena dopo scena, ciò che dovrebbe essere drammatico.

Persino quando compra il consenso del ragazzino del piano di sopra, non si comporta in maniera paterna ma come un compagno di giochi che vuole a tutti i costi dimostrare di essere superiore, simulando falsa amicizia. Così come aveva simulato falso amore con la figlia del medico per tenerlo lontano dall’agone elettorale.

Insomma Gennaro è un boss fasullo (proprio come l'omonimo ultrà dal pittoresco soprannome); è una caricatura che esalta gli aspetti negativi e patologici della camorra contemporanea, con il serio rischio di far sembrare quelli della generazione precedente (dediti alla famiglia e al clan) uomini d’onore , pur essendo, in realtà, nient’altro che criminali incalliti sospesi tra la morte e la galera.

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