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Opinioni

Festa di Liberazione, un canto partigiano. Così ho scoperto Resistenza e 25 aprile

Appunti sparsi. Da Bella Ciao a Pietro Calamandrei, da Beppe Fenoglio a Franco Fortini, storia di una educazione al sentimento del resistente.
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«Arrendersi o perire!»

Questo prologo è per anticiparti che scriverò della lotta di Resistenza in Italia e della Liberazione dalla dittatura nazifascista. Oggi, 25 aprile 2015, l'Italia celebra il settantesimo anniversario: è il giorno in cui iniziò l'insurrezione generale proclamata dal Comitato di liberazione nazionale. Insieme a noi festeggiano i portoghesi: la loro Liberazione dal dittatore Salazar c'è stata però solo nel 1974 e ha un nome bellissimo: Revolução dos cravos, Rivoluzione dei garofani.
Tranquillo: non ho alcuna intenzione di “spiegare bene” la Resistenza Italiana né tanto meno di scrivere “tutto quello che c'è da sapere su 25 aprile – Festa di Liberazione”. Per il semplice motivo che non ne sono in grado. Cercherò solo di raccontare come sono arrivato io, a innamorarmi di questa nostra storia di italiani.
Ah: i titoletti dei paragrafi sono testi di canzoni di Cccp e Csi, insomma di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni.

Geniali dilettanti in selvaggia parata.

«Quella è gente che ha liberato l'Italia dai nazifascisti. E tu al massimo puoi liberare il cesso la mattina, se hai il coraggio di uscirne e far vedere quella faccia di cazzo che hai!».

Quest'insulto è mio. È un po' elaborato ma è tutta roba mia. Avevo 17 anni.

Succedeva che ogni tanto ci pigliavamo, i rossi e i neri. Eravamo fuori tempo massimo: erano gli anni Novanta e Napoli a me sembrava uno di quei lumi da sera coi vetri colorati, molto belli con la lampadina fulminata e la spina rotta, messi lì a prendere polvere. Ci pigliavamo, cioè ci azzuffavamo verbalmente: loro erano i neri, noi i rossi e io ero proprio rosso ma rosso in faccia ‘che mi incazzavo e pensavo che mi sarebbe scoppiata qualche vena; ci pigliavamo ma non finiva a mazzate perché, appunto, erano gli anni Novanta e noi, figli degli Ottanta e della fine dei Settanta eravamo proprio arrivati tardi – io pensavo – per tutto: per la musica, per l'arte, per la lotta armata. Una generazione di epifenomeni.

Guardavo molta tv. Avanzi, Tunnel e Pippo Chennedy Show. Mai dire Gol, Su La testa, Cielito Lindo. Il Portalettere di Chiambretti, la Cartolina di Andrea Barbato.

Ma anche e soprattutto le repliche dei Ragazzi della Terza C, le zizze di Baywatch e di Colpo Grosso, Willy il principe di Bel-Air. Più i film porno trasmessi di notte su TeleMiracoli, la tv abusiva dei vicoli a ridosso del rione Sanità.

Poi è arrivato pure Berlusconi.
Cin-cin cin-cin ricoprimi di baci

«L'Italia è il Paese che amo»
Cin-cin cin-cin assaggia e poi mi dici

«Un milione di posti di lavoro»
Cin-cin cin-cin diventeremo amici

Litigavamo: non erano mazzate ma discussioni sterili, che duravano al massimo dieci minuti. Noi eravamo i rossi loro i neri, vorrei dire che si trattava di scelta consapevole e invece a guardarle oggi sembravano posizioni prese per caso.

Le discussioni sul calcio, per esempio, erano più accese, documentate e duravano molto di più.

Conforme a chi conforme a cosa, conforme a quale strana posa

In principio è stata "Bella Ciao".

Io non avevo internet, non potevo andarla a cercare su Wikipedia per apprendere che è «un canto popolare antifascista italiano, nato nell'Appennino Emiliano prima della Liberazione, diventato poi celeberrimo dopo la Resistenza poiché associato al movimento partigiano italiano».

Quando la ascoltai per la prima volta, Bella Ciao sostituì d'emblée nella hit parade del mio giovane cuore romantico l'Inno d'Italia di Goffredo Mameli. Quello che fa così:

Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò!

Io l'ho sempre percepito come la Patria che chiama alle armi per la difesa dei confini e contro la sottomissione. Per i confini di Stato, non per un concetto universale di libertà degli uomini di qualunque luogo, di qualunque razza, come invece, ho sempre riconosciuto in Bella Ciao:

Una mattina mi son svegliato
e ho trovato l'invasor.

Invasore, capisci? Occupazione di terra e di animo, un concetto potentissimo.

L'Inno di Mameli invece recita (questa strofa non la conosci, visto che non è quella che si canta prima della partita della Nazionale di Calcio…):

Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?

Uno scontro bellico in nome di Dio (quasi una autoesaltazione) mentre dall'altra parte, nel canto partigiano c'è la dura consapevolezza che la lotta di liberazione dei popoli è fatta soprattutto di perdite. E di morte:

E se io muoio da partigiano,
tu mi devi seppellir

La potenza e il carico di queste parole è immenso. Mentre nell'Inno di Mameli si muore per la Patria, qui si giura, consapevolmente, di raccogliere il testimone di chi è morto da partigiano, seppellire il morto e continuare la sua lotta sapendo che probabilmente costerà la vita. Ovunque, in qualsiasi luogo del mondo, sentire come propria ogni ingiustizia ai danni dei deboli. Una concetto simile l'ho trovato poi nelle Lettere ai Figli di Ernesto ‘Che' Guevara.

Parlavo di un testimone. È un concetto ben più ampio, immenso, da far tremare le vene nei polsi. Lo spiega Pietro Calamandrei, in questi versi:

…la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

E questa è un'altra cosa che voglio raccontarti: io ho scoperto Calamandrei da un libro a caso. Mi pare fosse un sussidiario o comunque un vecchio tomo scolastico. Poi conservavo le pagine dei giornali che in occasione del 25 aprile lo citavano spesso.

La storia è quella del feldmaresciallo nazista Albert Kesselring, “il sorridente Albert” – in realtà era un gran pezzo di merda – e il sorriso, immagino, fosse uno di quelli che il sangue te lo gela. Per sempre.

Kesselring è riuscito a morire nel suo letto nonostante fosse un criminale di guerra. Cose assurde che accadono: è riuscito a scampare al carcere a vita. È tornato perfino in Germania dove non si è pentito, anzi: disse che non aveva nulla da rimproverarsi e gli italiani avrebbero dovuto ringraziarlo e dedicargli un monumento.

Piero Calamandrei che fu partigiano prima e deputato social-democratico poi, trasse da quest'episodio una delle cose più belle che ho letto nella mia vita. Il componimento è noto come “Lapide ad ignominia”. Lo ricopio:

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

Fu sempre Calamandrei, nel 1955, intervenendo davanti a studenti superiori, a regalarci un pensiero che fa venir voglia di scoprire, di andare oltre. Parlando della Costituzione Italiana egli disse:

«Questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione».

La mia piccola patria, dietro la linea gotica, sa scegliersi la parte.

Ma oggi, un ragazzo italiano, come viene a conoscenza del fatto che in Italia c'è stata la Resistenza? Ovviamente a scuola, se papà, mamma o i nonni non gliel'hanno spiegato prima. Oppure in tv, se è incappato in qualcosa sull'argomento.
Se per ipotesi a scuola non dovesse studiarla? O meglio: se all'ultimo anno, quando c'è la maturità e la mente viaggia oltre i banchi, oltre le finestre con le grate scure e piene di polvere, oltre le lunghe scalinate di marmo, a questo ragazzo (o ragazza) sono entrate in testa solo le sterili pappardelle da recitare all'esame, che succede? Non ne saprà mai nulla di quel che è stato?

Ah, certo. Come no: c'è internet.
Ma la Rete è sterminata, strapiena di elementi contraddittori. Come discernere il grano dalla pula? Non c'è bisogno di una sapiente guida? E altrimenti chi sollecita poi, la voglia di conoscere, di andare oltre?
Io sono stato fortunato, ho avuto il docente giusto, a scuola. Mentre tutti studiavano I Promessi Sposi io leggevo Uomini e No, di Elio Vittorini. Loro don Abbondio, io il partigiano Enne 2:

«Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo è l'uomo».

E se la prof giusta non ce l'hai? Non c'è una porta obbligatoria da poter aprire, non c'è una pietra d'inciampo dalla quale necessariamente iniziare a riflettere?

Certo, c'è Facebook.
E su Facebook, infatti, oggi, 25 aprile 2015, troviamo centinaia di immagini e frasi sulla Resistenza e sulla lotta partigiana.
Certo, c'è Google.
E sempre oggi, infatti, "Festa della Liberazione" sarà una delle ricerche più frequenti. Insieme a: “frasi partigiano” e/o “frasi sulla Resistenza”.
Un pensiero carino, dunque. E ti togli il pensiero.

E quando non avremo più testimoni diretti, quando tutti quelli che l'hanno fatta su quei monti, entro quelle valli, lungo quelle coste, la lotta partigiana, non ci saranno più? Chi dirà? Chi sopporterà l'onere della storia? Un'ansia terribile m'assale.

Quietami i pensieri e il canto e in questa veglia pacificami il cuore

A Napoli il Viale della Resistenza è a Scampia, davanti alle Vele. Significherà qualcosa, mi sono chiesto ogni volta che l'ho percorso. Forse che bisogna liberare le periferie mal pensate e mal messe. Forse che lì alloggia la nuova Resistenza di questi giorni nostri, la lotta al degrado dei luoghi, degli usi, dei costumi, della cultura, dei rapporti umani. Noi non abbiamo invasori da scacciare ma guerre sì, quante ne vuoi. Scriveva Danilo Dolci – mai troppo ricordato -parlando dei campi di concentramento nazisti:

Annoiano, fanno ridere
i padri quando raccontano la loro guerra.
ma milioni milioni di persone non sanno ancora
mentre i fascismi rigerminano…

Oggi che qualcuno vorrebbe ributtare in mare chi resiste alla fame, alla disperazione, alla schiavitù e traversa un mare in cerca di libertà, ora che il governo-hashtag fa spot per ricordarci di ricordare e si concentra sul solo coraggio dei resistenti, scorgendo unicamente quello e nessuna verità complessa, trasformando – cito Franco Fortini in una critica del '59 al film "Il Generale della Rovere" di Roberto Rossellini – «lo spirito resistenziale in una specie di eterna conversione al bene e al sacrificio di sé»; ora, dunque, che il tutto e il contrario di tutto è stato scritto e detto, per riafferrare il senso di una storia coperta da troppe beghe di quart'ordine, da retoriche e strumentalizzazioni, mi rifugio nelle parole dei Calamandrei, dei Danilo Dolci, ma anche degli Elio Vittorini dei Beppe Fenoglio, nei ‘sentieri dei nidi ragno' di Italo Calvino, nelle frasi aspre di Franco Fortini.

Se capita anche a te, di sentirti così, sappi che siamo in molti ormai, in questa nostra ‘piccola patria'.
E che leggere poesie come quest'ultima che ti propongo, di Fortini, aiuta a capire quanta strada è stata fatta per arrivare fino a qui. E quanta ce n'è ancora. Non saremo certo noi a fermare il cammino. Vero?

Buon 25 aprile, buona Festa di Liberazione.

Traducendo Brecht

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov'erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d'un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l'odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

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Giornalista professionista, capo cronaca Napoli a Fanpage.it. Insegna Etica e deontologia del giornalismo alla LUMSA. Ha una newsletter dal titolo "Saluti da Napoli". È co-autore dei libri "Il Casalese" (Edizioni Cento Autori, 2011); "Novantadue" (Castelvecchi, 2012); "Le mani nella città" e "L'Invisibile" (Round Robin, 2013-2014). Ha vinto il Premio giornalistico Giancarlo Siani nel 2007 e i premi Paolo Giuntella e Marcello Torre nel 2012.
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