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Falasca (OeR): “Contro un referendum così ideologico, l’astensione è l’unica arma”

Intervista a Piercamillo Falasca, promotore del comitato Ottimisti e razionali, che invita all’astensione dal referendum del 17 aprile. Il rischio di creare ingenti danni all’economia del settore sarebbe concreto, nel caso in cui dovessero vincere i “no” alle trivelle. In secondo luogo, la campagna referendaria poggia su basi politiche e strumentali e l’astensione rimane l’unica arma contro l’ideologia.
A cura di Charlotte Matteini
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Un "non voto" contro il catastrofismo ideologico dei "No Triv". Se il referendum del 17 aprile dovesse davvero passare, il rischio di creare ingenti danni all'economia del settore sarebbe concreto. E' per questa ragione, soprattutto, che Piercamillo Falasca, direttore editoriale di Strade e tra i promotori del comitato "Ottimisti e razionali", invita all'astensionismo.

Il comitato "Ottimisti e razionali" punta al "non voto", l'astensione. Perché?

Cominciamo con il dire che l'istituto dell'astensione esiste perché strettamente legato all'esistenza stessa del quorum referendario. Il problema in questo caso è che il quesito è posto male, veicolato in maniera eccessivamente strumentale, non merita quindi l'attenzione degli italiani ed è per questo motivo che invitiamo all'astensione. In secondo luogo, in un sistema partitico contrapposto come quello attuale, che vede Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana e dove nemmeno più il centrodestra pensa a tutelare la politica energetica nazionale, preferiamo provare a tutelare gli interessi degli italiani sfruttando l'arma, legale, dell'astensione.

Un referendum che molti non esitano a definire puramente ideologico, se non addirittura dannoso

Lo è, infatti, sotto molti aspetti. Dovessero vincere i "sì" il 17 aprile, il danno non sarebbe solo di tipo politico – economico, ma anche democratico. Prima di tutto, alcuni dati: attualmente in Italia vengono estratti gas naturale per l'85% e per il restante 15% petrolio. E il gas naturale è una delle energie più pulite di cui disponiamo, quindi parzialmente già solo questo fatto mette in discussione le istanze ideologiche degli ecologisti. In secondo luogo, il quesito referendario si riferisce alle concessioni di piattaforme attualmente esistenti e chiede, in pratica: "volete voi che queste concessioni non vengano rinnovate a scadenza, anche qualora i giacimenti non fossero completamente esauriti?" Se vincessero i "sì", queste concessioni verrebbero bloccate e, in prima istanza, questo porterebbe l'Italia a una revisione della politica energetica nazionale. Impossibile, nel breve periodo, sostituire la quota di energie fossili che verrebbe a mancare con le rinnovabili e questo porterebbe ad un aumento delle importazioni energetiche, importazioni che ci renderebbero ancor più dipendenti dai paesi esportatori, Paesi che non propriamente definibili politicamente stabili. Attualmente l'Italia è energicamente dipendente da questi Paesi per il 76% del fabbisogno energetico. Dovesse passare il referendum, questa percentuale crescerebbe di 6 punti percentuali in 5 anni, arrivando a toccare l'81% del totale. Sarebbe un bel regalo per Paesi come la Russia e l'Arabia Saudita. Tutto questo però i comitati "No triv" non lo dicono.

E il danno democratico, invece?

Vengono di nuovo presi in giro gli italiani, con una campagna di sensibilizzazione carica di significati ideologici eccessivamente disallineati rispetto ai reali quesiti referendari proposti. Esattamente ciò che accadde nel 2011, quando venne indetto il referendum sull'acqua pubblica. Anche quella fu una campagna basata sull'emotività, gli italiani erano e sono ancora convinti di votare contro la privatizzazione del bene "acqua pubblica", ma non era affatto vero. Allo stesso tipo di presa in giro stiamo assistendo anche questa volta, perché il quesito referendario del 17 aprile non blocca le trivellazioni in quanto tali, ma vieterebbe la proroga delle concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti presenti entro le 12 miglia fino al completo esaurimento. E' un referendum che poggia su basi meramente ideologiche, un referendum politico.

Perché "politico"?

La piega politica appare ormai evidente. Alla luce delle nuove vicende che coinvolgono lo stabilimento Total di Tempa Rossa – se questa coincidenza giudiziaria sia più o meno voluta, questo io non lo so – sta creando ulteriore confusione e non aiuta a fare corretta informazione sul tema. Se prima la discussione verteva sul trinomio "sole, mare, cozze", ora invece sono le accuse politiche tra le parti a farla da padrone e il referendum diviene la scusa per strumentalizzare e attaccare il governo e i suoi esponenti, penalmente o politicamente coinvolti in questa vicenda. Con questo clima è difficile, se non impossibile, dibattere serenamente nel merito della questione.

Cosa c'entrano le "cozze"?

In Emilia-Romagna, a Ravenna per la precisione, esistono degli allevamenti di cozze sulle piattaforme, allevamenti che per molti anni sono stati riconosciuti e pubblicizzati come tra i migliori d'Italia dalla Slow Food di Ravenna. Ed effettivamente, le cozze in questo caso crescono in luoghi che sono più controllati rispetto ad altre parti d'Italia, non stento a credere possano essere ottimi prodotti. Come dicevo, per anni Slow Food Ravenna le ha pubblicizzate e sostenuto fossero un prodotto di qualità, ora che Slow Food nazionale ha aderito al comitato "No triv", tutto tace. Se non è ideologico questo dietrofront!

Secondo i comitati "No triv", è necessario abbandonare le energie fossili per le rinnovabili. Sarebbe economicamente sostenibile?

Attualmente non è possibile, e non solo perché economicamente insostenibile. La transizione dalle energie fossili alle rinnovabili va fatta – e da molti anni l'occidente ha già iniziato questo percorso – ma i tempi sono lunghi. Le ragioni sono molteplici, ma principalmente tre: le fonti fossili non sono integralmente sostituibili con le energie rinnovabili, piuttosto va progressivamente aumentata la quota di rinnovabili da utilizzarsi in sinergia con le fonti attualmente impiegate. In secondo luogo, la quota di rinnovabili stabilita da Europa 2020 per i Paesi europei ammonta al 20% circa, mentre per l'Italia invece è al 17%. Questo "sconto" è dovuto proprio grazie alla presenza dei giacimenti di gas naturale presenti nei nostri mari che, essendo fonti pulite, vengono considerate come perfette sostitute di carbone e petrolio. Anche questo, però, gli ecologisti non lo dicono.

La terza ragione, invece?

Come dicevo, la transizione verso le rinnovabili è già iniziata e il percorso è lungo. E' nell'interesse nazionale però ridurre le importazioni, non la produzione di energia. La transizione va fatta, anche per ragioni di efficienza economica, non solamente in ottica ambientalista.  Quel che possediamo è ricchezza, come dice il nostro slogan "non sprechiamolo". Facendo leva su un concetto molto caro agli ecologisti, dico che l'energia che estraiamo dai nostri mari è energia "Km zero" e questo comporta per l'Italia minori costi, un guadagno in termini economici portato dallo sfruttamento di una produzione interna, ma anche una diminuzione dell'inquinamento che inevitabilmente verrebbe prodotto dal trasporto in caso di importazione. Insomma, guadagneremmo in efficienza sia a livello ecologico che economico.

L'altro punto di scontro con i comitati "No triv" è sui numeri: loro sostengono che i posti di lavoro persi sarebbero pochi, diluiti in molti anni e potrebbero essere riassorbiti dal settore delle rinnovabili, Ottimisti e razionali è invece di diverso avviso. 

I dati, ufficiali e reperibili da chiunque voglia informarsi davvero, parlano chiaro: abbiamo circa 11.000 persone impiegate a vario titolo sulle piattaforme – è il dato totale, che comprende anche quei lavoratori che operano sulle piattaforme fuori dalle 12 miglia – a 32.000 invece ammontano gli addetti dell'indotto. Con una  eventuale vittoria del "sì" andrebbero a scadenza entro 5 anni un numero di piattaforme pari al 75% di quelle esistenti entro le 12 miglia. La riconversione delle competenze in un tempo così breve è pressoché impossibile e questo know how – che non necessariamente può essere spendibile nel settore delle energie cosiddette pulite – andrebbe irrimediabilmente perso. Dovesse passare il sì, a questi lavoratori rimarrebbe un'unica possibilità: andare a lavorare all'estero.

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