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Opinioni

Economia italiana sempre più prigioniera della politica, così il paese rischia

I vertici delle maggiori aziende a partecipazione statale sono appena stati rinnovati sulla base di metodi di lottizazione politica da prima repubblica ed ecco che già si parla di un intervento pubblico per Alitalia (dopo quello per Mps). Ma usare ricette buone forse 40 anni fa è quanto di più deleterio si possa fare…
A cura di Luca Spoldi
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Fermate il mondo, o almeno l’Italia, voglio scendere. Mentre non sono passate 24 ore dai timori alla certezza circa il rinnovo dei vertici delle più importanti aziende a partecipazione pubblica (Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Poste Italiane) avvenuto non sulla base di una qualche razionalità economica o scelta di politica industriale ma attraverso una lottizzazione che ai più ha ricordato le spartizioni di poltrone della “prima repubblica”, già ci si prepara ad un eventuale “coinvolgimento” dello stato nel (ennesimo) salvataggio di Alitalia.

Di che si tratta? Di 400 milioni di euro necessari a coprire “eventuali” disallineamenti tra il miliardo di risparmio di costi che il management punta a realizzare in tre anni e quanto si riuscirà a portare realmente a termine, considerando che già molto è stato fatto e che i sindacati sono sul piede di guerra. Visto che Alitalia è controllata per il 51% dai soci italiani riuniti in Cai e per il 49% da Ethiad, mentre i 200 milioni degli investitori arabi sarebbero già stati assicurati, tra gli italiani in grado di intervenire sarebbero Intesa Sanpaolo, Unicredit e Poste Italiane.

Intesa Sanpaolo e Unicredit, avendo già visto svanire mezzo miliardo di euro di fondi buttati nella fornace Alitalia (per non dire delle ulteriori centinaia di milioni bruciate col fondo Atlante), non intendono sentirne parlare, Poste Italiane potrebbe “sacrificarsi”, così sembrerebbe che un intervento pubblico si stia sempre più avvicinandosi, magari sotto forma di garanzia sull’ennesima iniezione di liquidità fornita dalle banche (visto che aiuti di stato diretti non sono consentiti, per fortuna, dalle norme europee).

Il guaio di Alitalia è che è un cadavere eccellente su cui troppi medici hanno provato a sperimentare differenti terapie, senza alcun successo. Il 70% del fatturato è originato dai voli a corto e medio raggio, su cui però l’azienda, complice la concorrenza delle “low cost”, perde 250 milioni di euro l’anno a livello di risultato operativo. Il 30% di fatturato generato dal lungo raggio, su cui operano solo 27 dei 122 aerei di cui si compone attualmente la flotta di Alitalia, è più profittevole ma non riesce a coprire i buchi, anche perché per andare a regime e iniziare a generare profitti una rotta a lungo raggio impiega dai 18 ai 24 mesi.

Il che significa che anche se gli ulteriori 8 aerei previsti dal piano industriale sul lungo raggio entreranno in vigore come previsto entro il 2021, non riusciranno a dare un contributo positivo al bilancio prima del 2023, rischiando anzi di contribuire al rosso prima di allora. Per tagliare i costi e proseguire la traversata nel deserto (che alcuni analisti indicano essere purtroppo destinata a non finire mai, con lo scenario di mercato attuale) Alitalia dovrebbe ridurre il personale di un sesto (quindi 2 mila dipendenti in meno rispetto ai 12 mila attuali), tagliando allo stesso tempo tra il 22% e il 32% la busta paga per chi rimarrà.

L’alternativa è il fallimento vero e proprio che metterebbe a rischio, pare, 7.500 posti di lavoro, generando tra costi del fallimento, sussidi di disoccupazione e assegni di ricollocazione quasi 10 miliardi di rosso che rischierebbero di rappresentare l’ennesimo “buco” in un bilancio pubblico come quello italiano in cui non si riesce (o non si vuole riuscire) a trovare risorse per 3,4 miliardi di euro.

Quando sentirete parlare di “temporanea” ri-nazionalizzazione, di rilancio della nostra “compagnia di bandiera”, di necessaria tutela dei diritti dei lavoratori (non solo di Alitalia, ma anche di Mps visto che la prevista “ricapitalizzazione preventiva” è a sua volta una ri-nazionalizzazione si spera temporanea), iniziate a mettere mano al portafoglio, perchè a rischiare nel caso i conti non tornino saremo noi contribuenti.

In tutto questo che uno dei maggiori sindacati parli di innovazione tecnologica come di una “mina da disinnescare” dà la misura di quanto l’intero paese abbia urgentemente bisogno di svegliarsi e accettare di essere nel XXI secolo, smettendola di utilizzare “ricette” buone forse 40 anni fa e accettando l'idea che per vincere bisogna imparare a competere (ed anche accettare di fallire, nel caso, per poter tornare a provarci senza che il fallimento sia un marchio a vita), non cercare maggiori garanzie statali, per non. Solo così si eviterà di bruciare definitivamente ogni speranza non solo per il presente, ma anche per il futuro.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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