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Opinioni

Deflazione: il mondo reale non vuol seguire le teorie economiche

La teoria economica bolla la deflazione come madre di crescite anemiche, dovute al rinvio delle decisioni di consumo e investimento adottate da consumatori e imprese. Ma il mondo reale non sempre si adegua alla teoria, come dimostra il caso spagnolo…
A cura di Luca Spoldi
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Il mondo reale e quello delle teorie economiche si incontrano raramente: l’ennesima ripresa sembra essere costituita, oltre che dalla Brexit (il cui processo in realtà deve ancora essere attivato), dalla deflazione ormai imperante in buona parte dell’Occidente da alcuni anni. Le banche centrali di tutto il mondo, da un lato, continuano ad auspicare una crescita annua dei prezzi al consumo attorno al 2%, ritenuto, per alcuni in modo del tutto arbitrario (come altrettanto arbitrari appaiono essere stati i livelli di rapporti come il Deficit/Pil o il Debito/Pil utilizzati, ad esempio, nei trattati europei) un livello d’equilibrio “ideale” a cui tendere.

Questo ha portato dal 2008, quando scoppiò la crisi economico-finanziaria mondiale alimentata dal crack di Lehman Brothers, ad oggi la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Bank of Japan e la Banca centrale europea, solo per citare le più attive, a impegnarsi in programmi di acquisto sul mercato di titoli pubblici e bond corporate per centinaia di miliardi di euro (e sterline e dollari e yen), oltre che nel ribasso dei tassi d’interesse ufficiali sempre su dollaro, euro, sterlina e yen, portati e mantenuti su nuovi minimi storici, in alcuni casi persino in territorio negativo almeno a livello nominale. Ciò nonostante di inflazione non se ne vede traccia in tutto l’occidente.

Se si guardano gli ultimi dati omogenei disponibili, riferiti a luglio, la Spagna è in deflazione (la variazione dei prezzi è stata infatti pari al -0,6% annuo), così come il Giappone (-0,4%) e sia pur di poco l’Italia (-0,1%). Anche la Francia (dove la variazione dei prezzi a luglio è stata pari al +0,2%, pari anche alla media dell’inflazione in Eurolandia), la Germania (+0,4%), la Gran Bretagna (+0,6%) e gli Stati Uniti (+0,8%) non possono certo dire di avere ormai raggiunto un livello di inflazione che possa far preoccupare alcuno. Semmai negli Usa, come ha fatto notare da ultimo il presidente della Fed di Kansas City, Ester George, se si guarda al mercato del lavoro, all’inflazione e alle previsioni della stessa Fed su di essa potrebbe essere “tempo per muovere” i tassi al rialzo.

Anche in questo caso stiamo comunque parlando di un rialzo dello 0,25%, che farebbe risalire dallo 0,5% (a cui il tasso ufficiale sul dollaro era stato portato nel dicembre dello scorso anno, dal minimo storico dello 0,25% mantenuto sin dal dicembre 2008) allo 0,75% il costo del denaro negli Usa. L’incertezza, che rende prudenti in questi ultimi giorni i mercati finanziari mondiali, riguarda principalmente il “timing” di questa mossa, che molti ritengono non verrà attuata prima di dicembre, ossia dopo l’elezione del nuovo presidente americano, ma che alcuni segnali come le stesse dichiarazioni di Ester George fanno pensare possa essere anticipata agli inizi del prossimo mese.

Se ne saprà di più, probabilmente, già domani sera, dato che il presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, dovrebbe approfittare dell’annuale conferenza di Jackson Hole, in calendario proprio domani, per far capire le intenzioni della banca centrale americana in merito. Al di là della reazione di breve dei mercati alle singole mosse delle banche centrali, è tuttavia evidente che né le imprese né i consumatori si sono per ora adeguati alla politica monetaria portata avanti da oltre sei anni a questa parte. O forse sì, ma il risultato non è stato quello previsto dai modelli econometrici, soprattutto per quanto riguarda l’andamento dei prezzi al dettaglio.

Ma perché la deflazione fa tanta paura? Perché secondo la teoria economica un prolungato periodo di calo dei prezzi finisce col modificare le aspettative di consumatori e imprese che così tendono a rinviare consumi e investimenti nell’attesa che i prezzi calino ulteriormente, portando a crescite anemiche, esattamente come accaduto in Eurolandia. Se però si guarda bene a cosa è accaduto, si nota come il mondo reale non segue esattamente la teoria, almeno in alcuni paesi come la Spagna, dove l’incremento medio annuo delle vendite al dettaglio degli ultimi tre anni è dell’1,7%, eppure i prezzi sono rimasti calanti.

Solo a giugno i consumi spagnoli, poi, sono aumentati del 5,8% a fronte di un calo dei prezzi dello 0,8%. La crescita dei consumi, tra l’altro, è andata di pari passo col graduale riassorbimento della disoccupazione, passata dal 26% a meno del 20% nel periodo. Evidentemente singole circostanze che agiscono su base locale intervengono nel processo in misura più rilevante che non il solo impulso monetario e non ci vuole molto a scoprire quali siano: in primis sono le politiche fiscali e, ove siano attivate efficacemente, le politiche economiche dei singoli governi.

Questo dovrebbe far riflettere chi ci governa e continua a dire di voler far ripartire l’Italia tagliando le tasse, cosa che non è avvenuta se non tramite l’erogazione di “bonus” di natura irrimediabilmente provvisoria essendo finanziati con un incremento dell’indebitamento, da tempo oltre ogni livello di sicurezza, e di voler varare riforme strutturali in grado di far recuperare appeal al paese agli occhi degli investitori nazionali e internazionali, cosa che solo in minima parte è avvenuta e nell’ordine sbagliato, preferendo operare sul lato dell’offerta (con la riforma del mercato del lavoro) e non della domanda, nonostante quella che l’economia italiana si è trovata ad affrontare fosse proprio una crisi da domanda indotta dalla politica di austerità fiscale di matrice tedesca adottata pedissequamente in tutta l’Eurozona.

Almeno quest’ultima “esogena” ha ormai cessato di produrre i suoi controproducenti effetti, per cui ora potrebbe esservi spazio per imbastire una politica di riforme sul lato della domanda e di ristrutturazione della fiscalità che premi in primis le aziende produttive, favorendo così un più rapido riassorbimento della disoccupazione e una crescita della ricchezza del paese, da oltre 15 anni ferma o in calo, e in secundis dei consumatori, visto che i consumi restano il motore dell’economia italiana e in genere occidentale. Non illudiamoci tuttavia che né le teorie delle banche centrali né le politiche fiscali ed economiche dei governi possano assicurarci il ritorno ad un futuro radioso: molto dipenderà da come il mondo reale reagirà giorno per giorno al mutare delle prospettive macro e micro economiche e sociali.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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