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Opinioni

Decreto Ilva: tanti fondi pubblici e una cessione al buio senza certezze

Il senato approva il decreto Ilva. Ci sono alcuni miliardi di fondi pubblici. Ma non vi è alcuna certezza che possa funzionare.
A cura di Michele Azzu
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È stato approvato in Senato il “decreto Ilva”, che avvia definitivamente i provvedimenti per la cessione degli stabilimenti dell’acciaio dei Riva, fra Taranto, Genova ed altri stabilimenti. Il decreto è passato con 157 voti favorevoli, 95 contrari, e 3 astenuti. Contrari al decreto M5S, Forza Italia e Lega. Entro il 30 gennaio si concludono le operazioni di cessione dell’azienda ed il piano ambientale.

Il decreto verte principalmente sui finanziamenti: ci sono 300 milioni di euro per continuare l’amministrazione straordinaria, presente già da un anno ad opera dei commissari Piero Gnudi, Corrado Carruba ed Enrico Laghi. Ma ci sono altri 800 milioni di euro (600 milioni per il 2016 e 200 milioni nel 2017) per la riconversione, le bonifiche, e le attività di tutela ambientale a cui dovrà far fronte il complesso industriale.

800 milioni più 300 milioni fanno un miliardo e 100 milioni, cifra molto vicina a quel miliardo e 200 milioni della famiglia Riva che la banca svizzera Ubs si è rifiutata di trasferire alle casse dello Stato italiano lo scorso novembre, per via dei “vizi materiali e formali particolarmente gravi” nella richiesta dell’Italia, e perché “l’origine criminale” di quei soldi non era certa.

Quei soldi, su cui poggiava il piano di Matteo Renzi per “rattoppare” i troppi problemi dell’Ilva, e rimetterla in condizioni di essere ceduta, sono stati dunque sostituiti coi soldi del contribuente, e anche se la Commissione Europea ha già avviato procedura d’infrazione per aiuti di stato, si riuscirà probabilmente ad evitare il blocco di questi fondi per via delle finalità ambientali e di bonifica.

Dal governo, poi, fanno notare come questo miliardo dovrà tornare indietro: “Queste risorse sono solo un’anticipazione che poi dovrà restituire chi, al termine del processo penale in corso, risulterà responsabile dei danni ambientali provocati dall’inquinamento dell’Ilva”. E i soldi dei Riva potrebbero venire sbloccati per via della causa civile avviata dai commissari, in cui si chiedono 2 miliardi.

Insomma, la partita Ilva è ancora al primo tempo. Con questo decreto si chiude unicamente il punto sugli stanziamenti necessari ad avviare le pratiche ambientali e quindi la cessione, in assenza dei soldi dei Riva. Ma la fabbrica che fine farà? E quanto tempo servirà ancora? E i lavoratori? Davvero sarà possibile trovare dei compratori per uno stabilimento, per più stabilimenti, in queste condizioni? E siamo certo che poi qualcuno resitituirà questi soldi allo Stato?

UNA CESSIONE AL BUIO. Da tre giorni i lavoratori dell’Ilva di Cornigliano, a Genova, scioperano e protestano per le strade del capluogo ligure. L’Ilva ha infatti annunciato 3.519 esuberi, e a rischio sono anche i contratti di solidarietà. Dai lavoratori si è recata anche Susanna Camusso, leader della Cgil, che chiede di rispettare l’accordo di programma del 2005 per salvaguardare gli attuali livelli occupazionali.

Ma la cessione avviata a gennaio a firma del ministro Guidi sembra davvero un salto nel buio, anche ora che si sono i soldi per avviare, finalmente, le bonifiche. “Ci si sta liberando del problema svendendo la fabbrica”, scrive il sindacato di base Usb nel comunicato. Mentre la Cisl commenta. “Intravediamo rischi di vendita al buio”. Il rischio, insomma, è di finire in quelle trattative misteriose che non finiscono mai, come è già accaduto per tante vertenze industriali italiane finite male: da Vinyls all’Omsa ad Agile Eutelia.

UN’OPERAZIONE COMPLESSA. In realtà, l’operazione di cessione sembrerebbe essere abbastanza complessa, e per certi versi ricorda quanto avvenuto col salvataggio di Alitalia (quello effettuato durante il governo Berlusconi, anni prima della vendita ad Etihad) da parte dei “capitani coraggiosi”. In questo caso, però, c’è il governo Renzi e quindi la terminologia è meno epica e più anglofona. C’è, quindi, la creazione del “fondo turnaround”, con un apposito decreto. Questo fondo dovrebbe raccogliere una cifra sul miliardo e mezzo di euro.

A partecipare sono la Cassa Depositi e Prestiti, Inail, Poste, Enpam e Inarcassa, ed altri ancora. Con questo miliardo e mezzo – che va ad aggiungersi al miliardo stanziato col decreto di oggi – si punta a dare solidità all’azienda, a provvedere al pagamento degli stipendi e alle operazioni di bonifica e riconversione. L’idea, insomma, è quella di un forte coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti, che prendere una quota di minoranza dell’Ilva. Insomma, sempre di soldi pubblici si tratta, visto che la CDP è per l’80% del ministero delle finanze.

I CONTI IN ROSSO DELLO STABILIMENTO. Lo stabilimento di Taranto, del resto, non potrà andare avanti a lungo in amministrazione strardinaria. I conti non lo permettono. Il 2015 si è chiuso con perdite attorno ai 300 milioni di euro, mentre sono già presenti circa 3 miliardi di debiti precedenti. E inoltre, ci sarebbero 150 milioni di euro di debiti dell’azienda verso le imprese dell’indotto, come ha denunciato il presidente della Confindustria di Taranto, che qualcuno dovrà pagare se non si vogliono altre crisi occupazionali sul tavolo del ministero. Ma ogni mese l’Ilva perde 25 milioni di euro, e i vincoli del risanamento ambientale parlano di circa 2 miliardi di euro necessari.

PROCEDURA D’INFRAZIONE EUROPEA E I MANAGER INDAGATI. Ma se i conti preoccupano, anche il profilo legale della vicenda non è roseo. La commissione europea ha avviato “procedura scritta” per aiuti di Stato all’Ilva, ma il commissario europeo Vestager ha fatto sapere che le risorse destinate alle operazioni ambientali non verranno incluse. Per questo, probabilmente, il governo ha subito fatto notare che le risorse previste nel decreto firmato oggi sono tutte destinate alle bonifiche (ma non è proprio così).

E ci sono anche i processi della magistratura italiana. Da ieri, infatti, sono nove gli indagati per la bancarotta dell’Ilva, fra cui spicca il nome dell’ex prefetto di Milano, Bruno Ferrante, nominato nel 2012 al vertice dell’azienda per gestire la nuova fase di crisi.E come dimenticare, pochi giorni fa, quella controversa nomina al vertice dell’Ilva – da parte dei commissari stroardinari – di Marco Pucci, manager siderurgico condannato per il rogo della Thyssenkrupp in cui, nel 2007, morirono sette operai?

La strada per risolvere il problema dell’Ilva è appena all’inizio di quella che sarà, con ogni probabilità una partita ancora lunghissima. In cui si stanno spendendo miliardi di fondi pubblici, e le garanzie che questi torneranno indietro non ci sono. Così come non c’è alcuna certezza che qualcuno voglia comprare l’azienda, né tenersi 11mila lavoratori a libro paga. E se poi arrivasse l’Europa, a bocciare queste stanziamenti come aiuti di Stato, o arrivasse qualche altra nomina vergognosa, basterebbe poco a fare ripartire ogni sforzo da capo.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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