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Costo del lavoro mostra la distanza che separa i paesi europei

Uno studio dell’ufficio statistico tedesco Destatis mostra come vari ancora in misura macroscopica il costo del lavoro all’interno dell’Unione Europea. L’Italia deve specializzarsi o rischia ulteriori perdite di posti di lavoro…
A cura di Luca Spoldi
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Uno studio comparativo sul costo del lavoro in Europa pubblicato in questi giorni da Destatis (l’ufficio federale di statistica tedesco) rivela molto delle distanze che ancora separano gli stati del vecchio continente, nonostante 15 anni di comune aderenza, almeno per 18 di essi, all’euro. Nel 2015 secondo quanto si legge nello studio in Germania il costo medio di un’ora lavorata è risultato pari a 32,7 euro, il 26% in più del costo medio a livello di Unione Europea (25,9 euro l’ora). Nei confronti della Francia, nei cui confronti la Germania ha da secoli un rapporto a dir poco competitivo, il costo del lavoro tedesco è mediamente più economico di un 8% visto che in Francia un’ora lavorata nel 2015 è costata mediamente 35,7 euro.

In realtà molto simili alla Germania, almeno dal punto di vista del costo del lavoro, appaiono Finlandia, Olanda e Austria, tutte comprese tra i 33,5 e i 32,5 euro all’ora. Appena più elevato il costo del lavoro in Francia e Lussemburgo (36 euro all’ora), mentre subito al di sotto del “blocco tedesco” si trovano Gran Bretagna (l’equivalente di 29 euro all’ora), Irlanda (28,7 euro) e, sorpresa, Italia (27,2 euro). La Spagna, dopo le riforme di questi ultimi anni, vede un costo del lavoro di poco inferiore alla media Ue e pari a 21,1 euro all’ora. Allontanandosi da questo gruppo di paesi nel complesso abbastanza allineati (anche se tra Lussemburgo e Spagna la differenza è già superiore al 41%) i costi del lavoro variano significativamente.

Danimarca, Belgio e Svezia sono i paesi dove il costo del lavoro medio orario supera i 40 euro (arrivando a un massimo di 42,7 euro), in Slovenia e a Cipro si oscilla sui 15,7-15,5 euro all’ora, in Grecia, prostrata dalla crisi di questi ultimi cinque anni abbondanti, il costo del lavoro non supera i 13,6 euro all’ora, poco più che in Portogallo (12,9 euro) e a Malta (12,6 euro). Ancora più modesto il costo in Estonia, Slovacchia e Repubblica Ceca (tra i 10,7 e i 10,1 euro all’ora), ma è nell’Est Europa che la differenza continua a essere consistente e tale da continuare a catalizzare investimenti e delocalizzazioni di produzioni mature originariamente svolte in altri paesi europei.

In Croazia un’ora lavorata costa 9,5 euro e potete ben capire quanto possa convenire a un imprenditore ad esempio del Triveneto passare il confine e de localizzare in un paese dove il costo del lavoro è di poco superiore a un terzo rispetto a quello italiano. In Polonia (dove da decenni importanti gruppi come Fiat Chrysler Automobiles hanno aperto impianti produttivi) il costo del lavoro, pur in crescita, non supera mediamente gli 8,4 euro all’ora; in Ungheria siamo a 8,10 euro, in Lettonia a 7,5 euro, in Lituania a 6,9 euro. In Romania e Bulgaria, dove tante aziende della moda italiana da anni fanno produrre le loro calzature o le loro tute o magliette, un’ora di lavoro costa rispettivamente 5 e 4,1 euro.

La differenza oltre a rimarcare come sia difficile pensare che l'euro da solo possa risolvere i problemi (anzi tendenzialmente li accentua, se non si attuano politiche di convergenze tra le varie economie nazionali degli aderenti all'euro stesso), naturalmente nasconde anche una diversa specializzazione di ciascun paese e una differente produttività: i paesi dove più basso è il costo del lavoro sono specializzati in lavori ad alta intensità di lavoro e bassa specializzazione, quelli dove il costo del lavoro è più alto vedono una maggiore presenza di aziende innovative, dove la qualità del lavoro è più importante della quantità di manodopera.

L’Italia, che anche demograficamente si trova a dover immaginarsi un futuro in cui la base di lavoratori attivi andrà al massimo mantenendosi stabile, ma più probabilmente riducendosi, deve decidere per tempo se vuole tentare una difesa a oltranza di industrie mature e a bassa specializzazione o puntare su settori e aziende innovative, che richiedono addetti meglio formati e più partecipi del risultato aziendale. Quello che nessuno può fare, salvo voler continuare a mentire a se stessi e agli altri, è pensare che la colpa sia degli speculatori cattivi, della globalizzazione o del destino cinico e baro.

Abbiamo la possibilità di sfruttare un costo del lavoro che, sia pure faticosamente, si sta riallineando con quello medio europeo e potremmo/dovremmo puntare con decisione su settori ad elevata specializzazione, dando ai nostri ragazzi l’incentivo per studiare e acquisire competenze in grado di offrire loro un futuro migliore che non quello di rimanere sottopagati e precari a vita. Oppure possiamo attendere che nei decenni futuri anche Bulgaria e Romania vedano crescere il costo del lavoro così da “garantire” a un numero sempre più ridotto di lavoratori di mantenere invariato il proprio tenore di vita. Sono scelte politiche e sociali di cui ciascuno deve essere consapevole per poter decidere del proprio e dell’altrui futuro.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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