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Cosa succede in città?

Napoli, movida e centro storico: tra sicurezza e sicumera.
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A cura di Rita Cantalino
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In principio (ma forse no, solo da un certo punto, da quando mi ricordo io) era Piazza del Gesù. Poi fu Monteoliveto. Seguirono Santa Maria la Nova solo per uno spiraglio, e ben più a lungo Largo San Giovanni Maggiore, che per gli abituè era più semplicemente il Kest'è. Improvvisamente fu Piazza Bellini. Cambiamo i luoghi, molto meno i volti, permangono spensieratezza e chiasso. I giovani in centro si muovono così, in maniera più o meno irrazionale si spostano di piazza in piazza per qualche anno e con loro migrano esercizi commerciali di successo, abitudini di bevute e forse altro. Non è niente di eccezionale, è abbastanza fisiologico che i punti di incontro delle grandi città siano affollati, rumorosi, a tratti molesti.

Il centro di Napoli, oltre a essere luogo di ritrovo di nottambuli e festaioli è molto altro: è il centro delle università, sono le stradine storiche della tradizione, è la più alta concentrazione di pizzerie del mondo, è le sue chiese, le copisterie, i bar, gli spazi occupati. Ma è pure Santa Chiara, Banchi Nuovi, i quartieri spagnoli, la Sanità. Il cuore di Napoli è ampio e variegato, abbraccia e accoglie tutti: dallo studente fuori sede al tossico che ti rapina, dal nonnino che di notte butta secchi d'acqua sui giovani festanti ai ragazzini che giocano a spaventarti ma hanno gli occhi da bambini.

È sempre stato così, ma ogni tanto si aggiungono delle variabili cui è il caso di guardare con attenzione. Non sono pochi giorni né pochi mesi che qualcosa di strano si sta muovendo: episodi di violenza isolata e non, attentati a esercizi commerciali e sparatorie, momenti di panico in pieno giorno e rocambolesche scene da far west nel cuore della notte. L'episodio della scorsa settimana a piazza Bellini non cade da cielo, non è un caso singolo cui guardare con meraviglia: è l'ennesimo elenco di una catena di fatti che nessuno ha ancora messo in fila ma che, a ben guardare, ci disegnano l'immagine di una città sempre in bilico sulle sue contraddizioni, dove i momenti di socialità e quelli di marginalità condividono lo stesso cielo, le stesse piccole porzioni di cielo che fanno da tetto a tutti i vicoli e alle grandi piazze. Quello che è accaduto stanotte nemmeno cade dal cielo: un ragazzino di diciassette anni ha concluso il suo sabato sera raggiunto da un proiettile, disteso sull'asfalto. Questa città sta sacrificando una generazione intera a una guerra di camorra. Sta sacrificando una generazione intera all'incapacità di leggere quello che sta accadendo da parte di chi dovrebbe opporre azioni di contrasto efficaci, e non solo repressive.

Perché stanotte il centro storico era blindato, c'erano posti di blocco a ogni angolo di strada, ma Gennaro è morto lo stesso. E allora forse sarebbe il caso di porsi un problema rispetto al fatto che repressione militare non ha senso di fronte a una guerra che è più grande, che non è solo armata ma sociale, economica, politica, culturale. Da troppo tempo ogni mattina la nostra città si sveglia e conta i morti, stamattina ci siamo svegliati e abbiamo aggiunto altri due alla lista, e questo non può essere liquidato solo come un problema di ordine pubblico. La risposta non può essere che questi ragazzini che si stanno sparando tra di loro hanno qualche precedente penale, tengono già conteggiata qualche rapina o qualche piccola storia di spaccio. Perché questa non è la verità, non è tutta la verità. È solo una parte, la parte che fa comodo raccontarci per autoassolverci, per dirci che tanto noi non ci possiamo fare niente, che lo scegli tu da che parte stare. Che poi le tue scelte siano conseguenti al tuo percorso di vita, e che quel percorso sia dato dalle condizioni e dal posto in cui sei nato, nessuno lo dice.

È importante indignarsi, è importante mantenere la capacità di restare inorriditi quando sei in una piazza a bere una birra e improvvisamente ti trovi nel bel mezzo di una caccia all'uomo con pistole in bella vista, però bisogna essere in grado di leggere i fenomeni nella loro complessità. Bisogna dirsi, da un lato, che se vieni rapinato in pieno centro storico a Napoli potresti esserlo dovunque, ma dall'altro bisogna pure dire che è inaccettabile tracciare una linea di demarcazione, un tratto di distinzione tra buoni e cattivi, decidere che i buoni devono restare e i cattivi vanno isolati, emarginati, esclusi. Perché molti di questi che semplicisticamente vengono indicati come violenti, come i nemici del bene comune, da quello stesso isolamento, da quella stessa emarginazione, da quella stessa esclusione vengono. Io non voglio essere una “cittadina per bene” che vive con sofferenza la sua città perché ci sono altri, non “per bene”, che non la fanno stare tranquilla. Io non accetto l'idea della mia città come “paradiso abitato dai diavoli”, e se così deve essere, preferisco stare tra i diavoli, i derelitti, quelli che non hanno niente da perdere e provano in un modo o nell'altro a prevalere.

Ben vengano i momenti di piazza, i segnali di coraggio e tutto il resto, ma veramente si può pensare che la soluzione ai problemi della nostra città sia dirci che una piazza di valorosi mette all'angolo e rifiuta chi vive quelle stesse strade, chi è figlio di quegli stessi vicoli? Che non significa difendere chi sbandiera una pistola per strada, ma capire che certe manifestazioni violente sono sintomo di un contesto che le determina, e dire che un caffè letterario, tanto quanto una libreria o un teatro, siano intenzionati a ignorarle, non aggiunge e non toglie niente alla realtà. Mettere tra parentesi un pezzo di mondo non vuol dire eliminarlo.

Ben vengano quelli che vogliono investire e non hanno paura, ma per favore non chiamiamoli ribelli. Non chiamiamo resistenza la normalità, per non svilire chi resiste veramente e con quel poco che ha prova a costruire qualcosa. Gli operatori sociali che non hanno dove sbattere la testa per l'annoso problema della dispersione scolastica, i gruppi studenteschi grandi e piccoli che provano a coinvolgere i ragazzini pestiferi delle stradine ai margini dell'università, le associazioni di maestri di strada e quelle che si occupano di contrastare la violenza dentro e fuori le mura domestiche, gli ambulatori sociali e quelli che ogni tanto pure prendono scope e secchi e si ripuliscono le strade. La resistenza è questo, e per quanto sia importante che una serie di privati mettano i propri soldi e le proprie risorse per progetti che magari sono culturalmente interessanti, facciamoci un bagno di realtà e smettiamo di dirci che il problema è il prezzo di una birra che magari ogni tanto è accessibile pure per gli studenti squattrinati.

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Blogger e attivista. Nata a Napoli nel 1988, dove mi sono laureata in filosofia politica. Sono stata coordinatrice provinciale dell'Unione degli Studenti Napoli e coordinatrice cittadina di Link, coordinamento universitario. Ho lavorato come educatrice per Libera in progetti con ragazzi provenienti da contesti di disagio. Il mio blog personale è Errecinque. Ho un sacco di romanzi nel cassetto.
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