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Cosa ha detto Renzi in Parlamento sulla strage di migranti

L’intervento di Matteo Renzi al Senato sulla questione migranti e sui tragici fatti del Canale di Sicilia.
A cura di Redazione
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L’atteso intervento del Presidente del Consiglio al Senato della Repubblica dopo l’ennesimo tragico episodio nel Canale di Sicilia:

Signora Presidente, gentili senatrici, gentili senatori, l’appuntamento di domani pomeriggio a Bruxelles riveste i caratteri della straordinarietà, perché l’appuntamento del Consiglio europeo è stato fortemente voluto dal nostro Paese, e non soltanto dal nostro Paese, per tentare di dare una risposta organica, strategica, vorrei dire persino culturale a ciò che sta avvenendo, è avvenuto e noi temiamo che potrà avvenire ancora nelle acque del Mediterraneo.

È molto semplice, in questi casi, predisporre risposte emotive, ma sono reazioni, non sono risposte. È importante mantenere un livello di umanità, perché continuare a dire che quelle morti sono dei numeri suona come profondamente ingiusto. Ciascuna di quelle morti non è un numero: è una storia, è una famiglia, è una vita, è una madre che non vedrà più il figlio tornare, è un bambino che non conoscerà mai il padre. Quelle morti non sono dei numeri da citare a caso e da dare in pasto al dibattito politico o alla rissa da talk show: sono storie di donne e di uomini che interpellano la nostra coscienza, e tuttavia non può bastare l’atteggiamento emotivo di reazione. Non può bastare neanche un elenco tecnico, puntuale e dettagliato di decisioni da prendere o di impegni da rivendicare. Il Consiglio europeo non è una lista della spesa e non lo è nemmeno il documento conclusivo del Consiglio europeo, ma credo che sia il tempo della politica e da questo punto di vista trovo importante che sia stato richiesto un momento di confronto parlamentare prima del vertice straordinario, ancorché non previsto dai Regolamenti, o comunque da questi non disciplinato precisamente, perché vorrei interpretare quella odierna come un’occasione per chiedervi un aiuto a fare della nostra discussione un’oasi di confronto, di dialogo e di approfondimento su un tema che troppo spesso è dato in pasto allo scontro ideologico.

Se vogliamo essere all’altezza della storia del nostro Paese, della sua civiltà e dei suoi valori, forse questa è l’occasione per tentare di affrontare politicamente – dal punto di vista della politica con la P maiuscola – il tema di cui stiamo discutendo.

E allora dobbiamo essere all’altezza di questa grande sfida, perché stavolta il mondo non ha fatto finta di niente, come troppo spesso è avvenuto in passato; stavolta, il mondo non ha girato gli occhi dall’altra parte, anzi la tragedia ha persino oscurato altre dinamiche tragiche che si stavano consumando nella stessa regione. Il fatto che nelle stesse ore del naufragio 28 nostri fratelli africani fossero decapitati sulle coste della Libia ha ottenuto poco più che un trafiletto, a differenza del passato. Perché? Perché, piaccia o non piaccia, la politica è spesso succube delle modalità con le quali la comunicazione la racconta e ciò nonostante noi non dobbiamo cedere ad una cultura semplicistica, che vorrebbe ridurre a banalità e mediocrità ogni tipo di confronto e di dinamica.

Tentare di rendere chiare le risposte che noi dobbiamo alla comunità internazionale, ai nostri concittadini e alle persone che tentano la strada del mare non significa scegliere la strada della semplificazione o del semplicismo; significa, al contrario, fare un’elaborazione articolata con risposte, poi, puntuali e concrete. È questo, a mio giudizio, il compito della politica, e un’esperienza di Legislatura come questa, nella quale si sta restituendo diritto, dignità e nobiltà all’impegno politico dopo un doppio decennio in cui si è pensato, nel dibattito di giornali e commentatori, che fosse finito il tempo della politica e che fosse arrivato il momento della sua sostituzione, costituisce, credo, una sfida ampia.

Però, perché vi sia spazio e perché si dia spazio alla politica occorre che ciascuno di noi parta dalla seguente constatazione: il problema della Libia non è soltanto la Libia; il problema della Libia non è la lettura soltanto storica di ciò che è accaduto; il problema della Libia è, innanzi tutto, la straordinaria pressione che arriva da tutto il cuore dell’Africa, e parzialmente dai Paesi del Medio Oriente, in una realtà priva, in questo momento, di un Governo stabile e unito, a forzare le frontiere naturali e a cercare non semplicemente di cambiare e di voltare pagina, ma a cercare la vita.

Quando un aspirante migrante, magari in attesa di una nave (perché questo pare sia accaduto), vede che coloro che gli sono accanto vengono presi e vengono decapitati, voi pensate che possa bastare uno spot o una dichiarazione sui talk show per fermarlo, per fermare coloro i quali fuggono dai criminali e da chi uccide in quel modo? Voi pensate che possa bastare una semplice discussione della politica italiana per tentare di fermare l’ansia di vita che è nel cuore e negli occhi di quelle persone? È evidente che non è così. E allora bisogna partire dalla constatazione che l’Africa non può essere relegata a problema di serie B nel dibattito della comunità internazionale.

Trovo molto interessante che in questo periodo dagli Stati Uniti (venerdì scorso alla Casa Bianca) fino al più piccolo Paese dell’Europa, Malta – il Paese più piccolo ma con un grande cuore, che ha avuto il coraggio di collaborare in modo molto serio, anche superando alcune divisioni che c’erano state in passato, insieme a noi e alle nostre persone e istituzioni -, tutti hanno affermato la necessità di considerare il tema dell’emergenza umanitaria in quest’area come una priorità. Bene: è un passo in avanti.

Qual è il ruolo dell’Italia? Innanzi tutto, in primis, il ruolo dell’Italia riguarda l’emergenza. Vorrei che esprimessimo la nostra gratitudine alle persone che vestono una divisa, alle donne e agli uomini della Guardia costiera, della Guardia di finanza, della Marina militare, delle forze di polizia, dei carabinieri, di tutti coloro che salvando una vita, come dice il Talmud, hanno salvato un mondo intero.

Vorrei che esprimessimo la nostra gratitudine ai sindaci che stanno accogliendo, in realtà spesso emergenziali donne e uomini, rischiando l’impopolarità con la loro costituency, con la loro base elettorale. Vorrei che esprimessimo la nostra gratitudine a quelle volontarie e volontari, e alle dipendenti e ai dipendenti che lavorano presso i centri di accoglienza.

Ci sono, in alcuni casi, vicende squallide da combattere e vicende corruttive da estirpare senza pietà e siamo i primi a dire che non ci deve essere nessun tipo di mitigazione possibile rispetto al danno che viene prodotto da chi ruba sulle spese e sui costi di questi centri. Ma ci sono centinaia e migliaia di donne e uomini per bene, ragazze e ragazzi che servono in quelle strutture con un obiettivo chiaro: voler bene al proprio lavoro e alle persone che incontrano. A tutti costoro va il nostro grazie e il grazie dell’Italia. Non accettiamo che la giusta critica verso chi ha messo in piedi un sistema corruttivo possa trascinare con se l’impegno personale.

Ma questo non basta, perché se tu credi che il ruolo dell’Italia sia soltanto quello relativo all’emergenza, diciamoci la verità: il mare è il posto meno sicuro dove salvare le persone.

Non possiamo continuare a pensare che il nostro compito sia semplicemente quello di raccogliere cadaveri e trasformare il Mediterraneo in un cimitero. A scanso di equivoci, persino in questi momenti in cui centinaia di migliaia di persone sono salvate dal nostro Paese, nell’ultimo anno, quello che è partito con l’operazione Mare nostrum, noi abbiamo avuto 499 salme raccolte in mare e, secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), abbiamo avuto qualcosa come 3.500 morti stimate. Fanno venire i brividi, ma sono numeri che hanno caratterizzato il 2014, non sto parlando di decenni fa o degli ultimi giorni. È dunque evidente che non è il mare il luogo in cui li possiamo fare; dobbiamo farlo, certo, in emergenza, ma dobbiamo avere una strategia più ampia.

Da questo punto di vista, l’Italia – permettetemi di dirlo perché lo vorrei riconoscere non all’azione del Governo ma a quella del Parlamento – dal primo giorno di quest’azione dell’Esecutivo ha messo l’Africa al centro. Il primo viaggio che abbiamo fatto all’estero, la prima missione l’abbiamo fatta in Tunisia; abbiamo aperto il semestre europeo, dopo averlo detto a Strasburgo nel discorso inaugurale, con la gioia per la liberazione di Meriam, una ragazza che ha partorito in catene in ragione della propria fede e che l’Italia è andata a riprendere e a cui ha restituito la libertà. Abbiamo investito moltissimo nell’idea della politica estera, anche quando c’era qualche risolino o qualche smorfia, perché pensiamo che, se l’Europa vuole essere qualcosa di più che un catalogo di burocrazia, debba avere la politica al centro della discussione in politica estera ed è per questo che abbiamo chiesto con forza che potesse esservi una nuova partenza sulla politica estera europea e naturalmente abbiamo molto da fare.

I primi risultati, dall’accordo con l’Iran alle sfide che ci attendono, dimostrano che è tantissima la strada ancora da percorrere, ma c’è una unitarietà tra il fatto che per la prima volta un Presidente del Consiglio sia sceso sotto il Sahara in una missione internazionale, la strategia di politica internazionale e anche di sviluppo economico del nostro Paese. Andare a portare investimenti in quella parte del mondo, che tra l’altro sta crescendo con percentuali molto interessanti, è la prima risposta possibile che la politica può dare ed è chiaro che non la si può raccontare così nel face to face del dibattito televisivo, ma il punto di partenza è la chiarezza della strategia.

L’Italia non è fatta a stivale semplicemente per le cartine geografiche; è naturalmente, fisiologicamente e culturalmente un ponte tra l’Europa e l’Africa. Quando noi ricordiamo quell’espressione di La Pira, che già una volta ho citato, per dire che il Mediterraneo è la prosecuzione del lago di Tiberiade, facciamo riferimento a una serie di valori culturali, spirituali e umani che caratterizzano secoli di civiltà giuridica e culturale del nostro Paese e io avverto tutta questa responsabilità. Come c’è in colui che va a salvare una persona e la fa partorire (nel messaggio di fine anno il Presidente Napolitano ha ricordato espressamente una donna della Marina Militare che ha consentito a una migrante che era stata appena raccolta da un naufragio di poter partorire e dare alla vita una persona, salvando contemporaneamente due esistenze), così come c’è in quell’atto lo spirito tipico della nostra cultura, ci deve essere anche in un ragionamento che sia più ampio di quello che abbiamo fatto fin ad oggi.

Per questo occorre l’Europa ed è per questo che l’Europa che noi chiamiamo all’azione deve intervenire in Niger, in Sudan, a Sud della Libia, attraverso la collaborazione con le Nazioni Unite. Ho molto apprezzato la collaborazione offerta dal segretario generale Ban Ki-moon anche nel corso della telefonata di ieri (avremo un ulteriore appuntamento la settimana prossima), ma deve anche essere capace di aumentare la presenza in mare, non soltanto sull’operazione Triton, ma anche su quella Poseidon, perché – attenzione – da Siria e Iraq in questo momento stanno tornando a crescere le partenze e le immagini fotografiche che avete visto dei naufraghi che cercano disperatamente di arrivare a riva arrivano da Rodi, da quella vicenda. Triton, Poseidon, emergenza.

Serve una strategia sull’Africa economica, culturale e civile come quella che richiamo sempre, perché è l’emblema di una parte della cooperazione italiana, dell’esperienza della comunità di Sant’Egidio negli anni Novanta dell’operazione in Mozambico. Oggi, dopo 20 anni, il Mozambico procede verso una strada di sviluppo e libertà. È uno dei Paesi più interessanti e più ricchi dell’Africa che verrà grazie a tante donne e uomini italiani che hanno scommesso e investito su un percorso che dalla cooperazione ha portato al consolidamento democratico. Ma, accanto a questo lavoro, ci deve essere la consapevolezza che stiamo combattendo una guerra contro i trafficanti di uomini. Non c’è nella storia un’altra esperienza di compravendita di carne umana – di questo si tratta – analoga a quella che stiamo vivendo se non risalendo all’esperienza dello schiavismo. Chiamiamo le cose con il loro nome. Ciò che accadeva nell’Africa occidentale nei secoli scorsi sta avvenendo con modalità diverse nel XXI secolo e lo abbiamo visto attraverso le intercettazioni pubblicate in questi giorni e attraverso le foto dei nostri predator che scattano immagini sulla costa libica. Questo si chiama schiavismo e distruggere questa forma di traffico di uomini è una priorità non solo per una doverosa questione di sicurezza nazionale, non solo per una questione di sacrosanto rispetto dei regolamenti internazionali, ma per una questione di dignità dell’uomo. Non possiamo accettare di vivere come estranei a noi stessi. Se siamo l’Italia, cioè quella terra che ha tanto da imparare ma anche qualcosa da insegnare in termini di valori di civiltà, di cultura e anche di presenza internazionale, siamone all’altezza. È chiaro che in questo sarà fondamentale che, accanto al nostro impegno, ci sia una consapevolezza da parte dell’Unione europea che noi immaginiamo su quattro fronti. A questo lavoriamo per il testo conclusivo dei lavori di domani: rafforzare le operazioni dell’Unione europea – lo abbiamo detto -; combattere i trafficanti di uomini; scoraggiare le persone a lasciare la propria terra attraverso un investimento sui Paesi di origine e sapendo che le persone che partono dalla Libia molto spesso non sono libiche – c’è un internazionale della sofferenza e del dolore che vede lo scafista tunisino e quello siriano guidare una barca presa dall’Egitto, fatta partire dalla Libia, con tante donne e uomini che vengono dal Corno d’Africa o da realtà di sofferenza e di dolore – e, infine, rafforzare la solidarietà tra gli Stati membri anche con una diversa strategia sia nell’accoglienza, come al punto 6 del documento che il commissario Avramopoulos ha posto all’attenzione della riunione dei Ministri dell’interno e degli esteri, che nell’allargamento dei principi che stanno alla base dell’accordo di Dublino. Queste sono le quattro strategie su cui lavoreremo per il documento.

Sullo sfondo sta il fatto che finché la Libia non sarà stabilizzata avremo sempre un problema aperto di fronte a noi. Questo è un dato di fatto oggettivo. Io credo che una Libia stabile passi oggi necessariamente per un accordo tra le tribù e tra le varie fazioni. È impensabile che dall’alto si immagini di costringere la Libia a riacquisire una situazione di stabilità, però credo anche che questa fase che stiamo vivendo possa finalmente restituire un ruolo all’Europa. Finalmente può consentire all’Europa di richiamare se stessa alla propria responsabilità. L’Europa non è soltanto un insieme di norme e di regole – lo abbiamo detto -, la politica estera europea non è soltanto il sacrosanto partenariato orientale su cui lavoriamo e intendiamo lavorare, il compito di oggi nel tempo che stiamo vivendo di crescenti sfide e di difficoltà è quello di portare l’Europa a fare una grande scommessa sul Mediterraneo come l’anima e il cuore della propria identità. Ecco, fatemi arrivare lì per concludere.

Io trovo che, paradossalmente, ci sia più consapevolezza, talvolta, da parte dei terroristi del valore simbolico e culturale di ciò che rappresentano gli ideali dell’Europa che non da parte nostra. Perdonatemi questa provocazione, ma se guardate ciò che è accaduto negli ultimi mesi in termini di attentati, vedrete che è stato colpito un museo a Tunisi, che è stata colpita una università e 148 ragazzi hanno perso la vita in Kenya, che è stata colpita la redazione di un giornale in Francia e, appena qualche settimana prima, una scuola internazionale a Peshawar, in Pakistan. Perché? È chiara la strategia: uccidere quante più persone possibili, ma quando non si riesce a uccidere e costringere le stesse persone a vivere prive di un’identità che è valori, cultura, ideale, capitale umano, educazione.

Se la scommessa è su questo terreno, il ruolo dell’Italia è sicuramente quello di andare a intervenire in mare, e lo stiamo facendo; è quello di essere pronti a fare di tutto, insieme all’Unione europea e alla Nazioni Unite, per bloccare il traffico umano, come stiamo facendo e come faremo ancora di più (sono 1.002 le persone che abbiamo arrestato, tra scafisti e persone che immaginiamo complici dell’organizzazione criminale). Il ruolo dell’Italia è sicuramente quello di fare una scommessa sull’Africa di lungo periodo, che non dimentichi niente, dalle ragazzine ancora in mano a Boko Haram in Nigeria, rispetto alle quali troppo spesso l’emozione ha fatto dimenticare che sono ancora lì dopo un anno o da più di anno, ma che dovrebbe spingerci a vivere la sofferenza: ragazze di 12 anni costrette e vendute, o rapite e poi vendute.

Ma il ruolo dell’Italia non è soltanto questo. Il ruolo dell’Italia – e ho davvero terminato – è quello di riuscire a fare un passaggio in più, ed è un passaggio di strategia all’interno dell’Europa e nel mondo globale di faro di civiltà, di confronto e di ideali. Per questo io credo che sia importante che, al netto delle diverse opinioni sul passato, sull’intervento in Libia e sulle strategie del Governo possa esservi una maggioranza ampia, se possibile, ben più di quella di Governo di fronte a un passaggio del genere.

Negli altri Paesi, quando si vivono situazioni di difficoltà, si cerca di valorizzare ciò che unisce e si supera l’impeto demagogico e populista che qualcuno pensa possa portare voti. Ma siccome noi non abbiamo mai avuto paura di confrontarci a livello elettorale, sappiamo che i voti si prendono puntando sulla ragionevolezza e sulla responsabilità.

Quello che credo sia fondamentale è che non manchino le risposte – spero ampie, ma che non manchino – del Consiglio europeo, domani, e del Parlamento, oggi.

Ho citato alla Camera, e lo faccio anche qui, una poesia, una poesia d’amore. Può sembrare strano che si citi una poesia d’amore quando si parla di una vicenda terribile, di morte. È una poesia di un poeta spagnolo che dice: «L’aria ormai è quasi irrespirabile, perché non mi rispondi: tu sai bene che quello che io respiro sono le tue risposte. E ora soffoco». Eliminate per un attimo la parte legata alla dinamica al rapporto tra due persone che si amano. Mettete un ragazzo chiuso a chiave nella stiva di quella nave e pensate a come muore soffocato dalla mancanza di risposte di una comunità internazionale che in questi anni ha pensato che l’Africa non fosse una priorità, che la Libia non fosse una priorità.

Pensate a quanto amore ci sia nelle donne e negli uomini italiani, che sono stati, anche in queste ore, accusati; le donne e gli uomini di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, che stanno rischiando e dimostrando abnegazione e coraggio per salvare le vite umane di persone che altrimenti soffocherebbero e affogherebbero in mare.

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