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Con Gabriel García Márquez muore il sentimento di un tempo scomparso

Si è spento a Città del Messico Gabriel García Márquez, il grande scrittore colombiano, Nobel per la letteratura, maestro del Realismo Magico, una delle voci più importanti della narrativa novecentesca.
A cura di Luca Marangolo
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Erano molti giorni ormai che la salute di Gabo, scrittore anima dell’America latina, aggraziata penna, cantore di un continente incantato, era chiuso in una stanza di ospedale per via di una brutta infezione. Un'infezione respiratoria che aveva reso il suo corpo fragile,  tanto da non superare la convalescenza. Si è spenta così una delle voci più importanti della narrativa del Novecento, portando con sé un’ultima parte di quel secolo che oggi ci appare per questo ancora più distante. Una parte che ha sognato, irresistibilmente sognato, si è lasciata trascinare in un mondo senza tempo, dove gli eventi si succedono l’un l’altro girando in cerchio, in cui la materia e lo spirito si riflettono come in uno specchio, trasfigurati da una immaginazione il cui incanto fa risplendere assieme il ricordo e il presente, la vita e la storia.

Nei suoi romanzi i confini dei luoghi e delle cose erano così incerti “che per trovarle bisognava indicarle con un dito” e ogni persona, luogo, spirito, o semplicemente oggetto, si caricava talora dello splendore dell’innocenza. Splendore che esprimeva l’essenza di un mondo sospeso, dove la vita dava il braccio al mito, ed il sogno raccoglieva fantasmagorie dell’anima collettiva.

Gabriel Garcìa Marquez è morto a ottantasette anni, dopo aver creato, per tutta la vita, storie eterne, e dopo essere stato il cantore naif e infaticabile di una realtà meravigliosa, realidad meravillosa, il Realismo Magico,  quello stile narrativo che ha incantato il mondo.

La sua indole saggia ed infantile, (o, va da sé, saggia proprio perché infantile) lo ha portato ad essere anche una fonte di ispirazione intellettuale per molti, un’immagine di coscienza critica in grado di animare il suo impegno civile con la sua immaginazione e di contagiare con l’allegria della parola, che racchiude il cosmo in un gioco di creazione continua e inesausta.

Il colonnello Aureliano Buendìa in Cent’anni di Solitudine aveva lasciato il fronte del partito liberale e si era ritirato a svolgere la sua attività preferita: coniare dei pesciolini d’oro nello scantinato della grande casa. Questi pesciolini scintillanti potrebbero essere un po’ il simbolo di una solitudine, che senza dubbio confina con l’eternità, ma che è anche la solitudine di un universo talmente incantevole da dissolversi fuori da essa: ciò nonostante è proprio alla solitudine dell’immaginazione che abbiamo imparato a guardare, leggendo tanti titoli come L’amore ai tempi del colera, La storia di Candida Erendira e della sua nonna snaturata, i dodici racconti raminghi, L’autunno del Patriarca o, anche, Racconto di un Naufrago.

L’insegnamento è che questa solitudine dell’immaginazione è solo apparente: il sogno della scrittura è un attimo che può trascinarci in un mondo fragile ma in grado di dare tantissimo quando il libro è chiuso,  e ci sembrerà di avere vissuto mille vite.

Il Novecento narrato da Marquez ci appare oggi forse un po’ lontano, eppure proprio lui è stato tra i testimoni più vivi, più veri e forti di un’epoca, gli anni Sessanta, in cui la cultura occidentale aveva compreso profondamente l’energia del proprio pensiero e della propria immaginazione, e guardava a Macondo e all’america latina come all’alterità più viva di questa sua energica immaginazione. Nella radicale alterità dei mondi spesso immaginari, onirici ed a volte anche violenti Marquez ha saputo creare  – alla stregua di altri grandi latinoamericani da Cortàzar a Lezama Lima- uno specchio della visionarietà dell’uomo occidentale, che ha subito compreso come quei luoghi così lontani parlassero di lui e del suo stato mentale molto di più di tanti aspetti della sua effettiva condizione storica.

Con la sua morte sembra svanire via il sentimento di un tempo scomparso, che non sembra oggi essere assai presente e che ci dà l’idea di come siamo stati; la sua morte ci fa ricordare di colpo cosa vuol dire veramente creare qualcosa ed esprimere desiderio, di vita e poesia,  che possa metterci di fronte all’energia di un’esistenza senza limiti tangibili, concreta ma aurorale, un campo assoluto in cui la letteratura diventa la vera forza e l’arte un inarrestabile motore.

La forza del Realismo Magico sembra essersi spostata dai luoghi di Macondo, ma ancora brilla nella penna di scrittori come Mo Yan o Toni Morrison, che continuano, seppure in modo diversissimo, l’opera di cui  Gabriel Garcìa Marquez fu veramente il maestro: accendere di fantasia i luoghi e raccontare, così, gli spazi remoti delle periferie del mondo.

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