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Come la camorra gestiva a Roma pizzerie, ristoranti e bar

Locali dai nomi napoletani sono stati sequestrati a Roma nel corso di una maxi-operazione anticamorra. La gran parte fa capo alla famiglia Righi, sono pizzerie e ristoranti messi in piedi grazie a un’attività di riciclaggio del denaro dei clan della camorra.
A cura di S. P.
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Sono più di venti i locali, tra pizzerie, ristoranti e bar, che ieri sono stati sequestrati a Roma dai carabinieri. Un pezzo della Capitale è finito sotto sequestro nel corso di un’operazione anticamorra che ha portato all’arresto di 90 persone tra Napoli, Roma e la Toscana e al sequestro di beni per 250 milioni di euro. La gran parte di questo pezzo di Roma sequestrato fa capo alla famiglia Righi, in particolare ai tre fratelli napoletani Salvatore, Antonio e Luigi. Una famiglia che si è trasferita a Roma a metà degli anni ’90. Nella lista dei ristoranti dai nomi partenopei nel cuore di Roma troviamo “Pummarola e Drink”, “Zio Ciro”, “Frijenno” e simili. Secondo il gip la famiglia Righi aveva creato “con modalità illecite, un’attività imprenditoriale a Roma realizzando una holding societaria che controllava illecitamente una catena di esercizi commerciali nella ristorazione”. La catena di locali, secondo gli inquirenti, sarebbe stata messa in piedi grazie a un’attività di riciclaggio del denaro dei clan della camorra.

Come ricostruisce oggi Il Corriere della Sera, i rapporti dei Righi con il crimine campano risalgono agli anni Ottanta, quando alcuni fratelli furono coinvolti in un sequestro di persona organizzato dai camorristi della Nuova Famiglia, rivali di Cutolo. Poi negli anni Novanta arrivano a Roma esportando l’attività di ristorazione già avviata a Napoli. Un’attività che secondo l’indagine si è alimentata con i soldi del clan Contini investiti tra pizzerie e ristoranti. I proventi ricavati erano veicolati su due contabilità distinte: una ufficiale che faceva capo alle società intestatarie delle quote di proprietà e l’altra sommersa, dove finivano gli incassi mai fatturati, dai quali venivano prese cifre per decine di migliaia di euro per spedirle a Napoli, dove venivano consegnate a uomini del clan. Per sfuggire ai controlli fiscali, le varie società venivano prima intestate a prestanome nullatenenti o quasi, poi svuotate del loro contenuto e fatte fallire, con le attività trasferite a nuove società che restano in vita per periodi brevi.

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