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Cinque anni senza Vittorio Arrigoni. Sempre meno umani

Sono cinque anni dalla scomparsa di un anomalo giornalista che provò a raccontar il dolore con la penna e con il cuore. “Restiamo umani”, scriveva alla fine di ogni suo articolo e chissà cosa direbbe di questa Europa che umana proprio non è stata capace di restare.
A cura di Giulio Cavalli
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Cinque anni fa moriva Vittorio Arrigoni: attivista, cronista, giornalista e pacifista "Vik" Arrigoni è stata la voce dalla Palestina che ha raccontato le dure condizioni di vita dei palestinesi gazawi. Palestinese onorario, Vik, ha collaborato con il Manifesto, PeaceReporter,, Radio Popolare, Radio Due (per il programma Caterpillar) oltre a molte altre numerose testate internazionali. È stato l'unico cronista presente sul campo durante l'operazione "Piombo Fuso" (la campagna militare di Israele sulla striscia di Gaza) e proprio in quei giorni il suo blog è diventato un fenomeno internazionale, l'unico ad offrire una prospettiva dei fatti non mediata dal regime israeliano.

Ma Vittorio, per chi l'ha conosciuto, è stato anche molto altro: si dedicava alla critica e alla poesia (è ancora online il suo blog SimposiodelleCrudeltà) e attraverso il suo canale youtube cercava le parole per raccontare un mondo che sembrava non accorgersi del dolore, della distruzione e della morte. Eppure Vittorio Arrigoni è sempre stata una voce scomoda, da vivo e da morto. La notte del 14 aprile di cinque anni fa è stato rapito all'uscita della sua solita palestra, a Gaza, da un gruppo che si dichiarò jihadista salafita che pubblicò un video in cui Arrigoni appare bendato e legato: i sequestratori chiedevano la liberazione del leader Hisham al-Saedni, più noto come sceicco Abu al Walid al Maqdisi dalle carceri palestinese per salvare la vita del giovane italiano. Nessuna trattativa: il giorno successivo il corpo di Vik viene ritrovato a Gaza. Morto per strangolamento, dicono i rilievi.

Ma la morte di Vittorio Arrigoni, se è vero che in Palestina sollevò un genuino dolore (e la condanna delle Nazioni Unite), qui da noi non fece che rinverdire le antiche contrapposizioni tra i sostenitori filoisraeliani. Niente lutto nazionale per Vik: mentre la madre Egidia e i suoi amici più cari non avevano ancora smesso di piangerlo la delegittimazione aveva già cominciato ad addentarne il ricordo. E forse, viene da pensare, che in fondo a Vittorio sarebbe comunque andata bene così, con quella sua barra dritta tenuta sui diritti che, diceva, non possono essere "selettivi".

Cinque anni che Vittorio è morto e quella sua frase con cui chiudeva tutti i suoi articoli da Gaza ("stay human", restiamo umani) è diventata in questi cinque anni un inno: perché Arrigoni non era un semplice cronista che stilava elenchi di fatti e nomi ma Vittorio è stato soprattutto un uomo tra gli uomini che aveva deciso di raccontare l'orrore, il dolore e decidere da che parte stare. Un partigiano, Vittorio, nel senso etimologico del termine.

E chissà cosa penserebbe Vik di questa Europa che costruisce muri, stende fili spinati e considera il "buonismo" un batterio da debellare. Chissà cosa ne penserebbe lui, che del riuscire a rimanere buono senza farsi inquinare dai dolori del mondo, di questo cattivismo che oggi non viene nemmeno taciuto ma sfoggiato come se fosse una nota di merito. Chissà cosa ne direbbe lui di questi saggi che pontificano sui dolori del mondo, lui che a vent'anni era già impegnato con le Ong nei Paesi dell'Est e poi in Perù, in Africa prima di essere inserito nella lista nera degli "indesiderati" dallo Stato di Israele. Chissà cosa direbbe di questa Europa che vorrebbe fare finta di niente. Chissà come ci rimarrebbe a vedere quanto poco siamo riusciti a restare umani.

C'è una frase di Vittorio (la scrisse nel 2009) che oggi risuona ancora più forte: «Io non credo nei confini, nella barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini, dalle longitudini a una stessa famiglia che è la famiglia umana». Ecco perché ci manca, Vik.

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