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Che cosa vuol dire davvero la parola ‘olocausto’

Quando si sente la parola ‘olocausto’ si parla di due cose: o della Shoah o dell’esplosione di ordigni nucleari. Va capito perché, e non è facile dire se siano usi davvero calzanti o gravemente impropri.
A cura di Giorgio Moretti
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Sono appena passati i giorni delle commemorazioni della distruzione di Hiroshima e Nagasaki, ma giusto in queste settimane ha ripreso a soffiare un vento nel Pacifico che minaccia di riaprire il capitolo dell'uso di armi non convenzionali in guerra. E questa minaccia prende la forma di un'espressione ricorrente, che ci piacerebbe pensare rétro, tanto terribile quanto scivolosa: olocausto nucleare. Ossia l'incontrollata devastazione inflitta al mondo da un conflitto in cui siano usati ordigni nucleari.

Ora, l'Olocausto con la "o" maiuscola è per tutti la Shoah, il genocidio nazista degli ebrei (e non solo). S'intuisce quindi un significato di distruzione, che però non coglie il cuore della parola. Letteralmente, in greco holòkaustos significava ‘bruciato interamente' (composto di hòlos ‘tutto' e kàiō ‘brucio'): descriveva un particolare tipo di sacrificio, compiuto tanto nei culti greci quanto in quelli giudaici, in cui l'animale sacrificato veniva bruciato interamente nel fuoco sacro dell'altare. Qui niente veniva tolto alle fiamme e usato per altri fini rituali, e l'offerta alla divinità era totale.

L'olocausto ha quindi due caratteri: quello della completa consumazione da parte del fuoco (figurato o meno) e quello del sacrificio. Ma solitamente questo secondo carattere è trascurato, e qui nasce il paradosso dell'olocausto. Perché se descrivere la distruzione portata da una bomba atomica (perfino globale, in una guerra scervellata) richiamando l'annientamento consumato da una fiamma superiore calza a pennello, è assurdo e grottesco trovarci il profilo di un sacrificio, che chiama il sacro, la liturgia, l'alto sforzo verso un onore, un bene più alto.

Questo è un problema generale della parola ‘olocausto': anche quello perpetrato dai nazisti non può essere visto come un sacrificio. Che fare, allora? Arrendersi a una locuzione storta? No. La soluzione a questa perversione del termine possiamo trovarla nell'uso. Quando una parola si cristallizza in una manciata di usi stereotipati è consueto che prenda profili piatti ed erronei: la medicina è un uso appropriato al di fuori di quei casi. Nella fattispecie, casi di sacrifici che consumano sì completamente, e sì distruggono, ma innalzando. Pensiamo all'olocausto di chi dedica tutte le energie della sua vita per un nobile scopo, al coraggioso olocausto dell'investimento totale e irrevocabile, all'olocausto dell'abnegazione che non conosce riposo.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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