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Charles Bukowski, poeta al limite: oggi vent’anni dalla sua morte

Nove Marzo 1994: vent’anni fa è morto Charles Bukowski, crudo poeta della vita sradicata americana: la sua vita e la sua scrittura sono state tutt’uno e meglio di molti altri hanno raccontato la crudezza di una vita che avanza senza alcun orizzonte di senso, ma espresso con grande forza e talento per il linguaggio.
A cura di Luca Marangolo
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“Per me la morte significa ben poco. E’ solo l’ultimo scherzo di una serie di brutti scherzi” Era così il suo stile. lo stile di Charles “Hank” Bukowski, uno degli scrittori più inclassificabili del recente occidente letterario. Se ne è andato da  vent'anni ormai, Hank, il nove marzo del 1994. Un profluvio di parole è stata la sua vita, prolifica. La sua opera conta più di quaranta libri: migliaia di poesie e poi romanzi e racconti.

"Gesù, lo sentivo quarantasette anni fa/ quando ero uno scrittore morto di fame/ ed eccolo qui di nuovo ora io sono uno scrittore con un po' di successo e la morte va su e giù per questa stanza /e si fuma i miei sigari/beve qualche sorso del mio vino ("La morte si fuma i miei sigari") (Death is smoking my cigars,  da The last night of the Earth Poems, 1992)

La critica si è divisa, su di lui. In America c’è chi lo accusa di essere inutilmente aggressivo, violento; chi lo difende invece capisce che vivere e scrivere, per Bukowski, era un po’ lo stesso gesto: il suo mondo era ossessivamente sempre quello, un mondo di prostitute, individui spiantati, scrittori  solitari e alienati. Un’alienazione tutta reale, esistenziale ma anti-psicologica: infatti il meglio di sé Bukowski lo dà proprio quando  cattura le immagini di vita che fluiscono indipendentemente da tutto, indipendentemente da i rapporti, indipendentemente  dalla società, che nei suoi racconti sembra quasi uno sfondo asettico e incomprensibile entro cui si ritaglia il quadro romanzesco di personaggi pseudo-autobiografici. Un mondo fatto di stralci di esistenza sradicati, senza capo né coda, di rapporti  frenetici, sesso, un mondo attraversato dal tema dell’attaccamento morboso per l’alcol e, verrebbe voglia di dire, post-nichilista: i personaggi di Bukowski sono già fuori da ogni punto di riferimento, sono già privi di ogni articolazione intellettuale sensibile. Nei suoi scritti non c’è analisi, non c’è metafora, c’è solo la frenetica assurda voglia di affidare all’immaginazione l’espressione della vita e senza il minimo bisogno di darvi un’ordine.

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Tutte le donne di Hank, il protagonista di Post Office, sostituiscono i capitoli, sostituiscono gli eventi di cui i romanzi sono di solito fatti e diventano un mezzo per scandire una storia che, semplicemente, non ha storia. Ed è per questo che per Charles Bukowski sembra esserci grande continuità fra il racconto e la poesia: tutte le sue migliaia di poesie sono piccole storie, sono  estremamente narrative o, se volete, sono sempre in bilico tra voler catturare una situazione con un’immagine e voler raccontare una storia.

È certamente un verso frenetico, quello di Bukowski e forse ha poco a che fare con un’idea di poesia che vede l’opera come qualcosa di coerente e chiuso in se stesso. Quello che Bukowski voleva fare, che piaccia o non piaccia, era esattamente l’opposto: tutti questi versi sono legati da un esercizio quotidiano delle parole, frenetico appunto, il che, però, ovviamente, non significa assenza di craft e di stile, che però non si può capire, quasi, non si può apprezzare, se non come lo stile di un diario, uno catalogo di immagini, un insieme di microscopici racconti.

I suoi genitori erano tedeschi,  Charles ebbe un’infanzia segnata dalla violenza del padre, di cui si parla in Ham and Rye e ebbe almeno due donne che lo segnarono a fondo: Jane Cooney Baker, che ha lasciato un’impronta fortissima, in moltissime cose che Bukowski ha scritto dopo il 1962, anno in cui è morta, facendolo impazzire di dolore; e poi Frances Smith, giovane poetessa, compagna di una vita, da cui è nata Marina Louise Bukowski.

 Anche se è morto nel 1994, a San Pedro, per un’improvvisa leucemia, i racconti di Bukowski, le sue poesie, in realtà, continuano a uscire inedite ancora ben oltre la sua morte, e man mano che gli anni passano lui si consolida come un classico e grazie a John Martin l’editor della Black Sparrow. Bukowski infatti ad un certo punto della sua vita doveva scegliere: fare l’impiegato postale o accettare uno “stipendio a vita” di cento dollari al mese dalla Black Sparrow e cominciare a scrivere sul serio. Bukowski ovviamente accettò e scrisse non solo Post office, ma una quantità interminabile di opere, che Martin poi ci ha permesso, raccogliendole, di pubblicare postume, come ha voluto lo stesso Bukowski. L’ultima è del 2008 e si chiama The people look like flowers at last: new poems e  il titolo dice tutto.

Un appunto su Pulp, l'ultima fatica di Bukowski
Un appunto su Pulp, l'ultima fatica di Bukowski

Charles “Hank” Bukowski è sepolto a San Pedro, e la storia della lapide di Bukowski è citatissima fra gli aneddoti e le leggende che circolano su di lui, e tuttavia anche noi non possiamo, il giorno della sua morte, non raccontarlo ancora. Sulla sua lapide c’è l’immagine di un pugile e là il nome Charles Hank –don’t try- Bukowski. “Don’t try” perché una volta, in una lettera oggi pubblicata nella raccolta Living the Luck, un carteggio che tiene insieme testi scritti fra il 1965 e il 1970,  racconta che alla domanda su come si fa a scrivere, ha risposto:  

“Non lo fai, gli dissi. Non provi. È molto importante: non provare, né per le Cadillac, né per la creazione o per l'immortalità. Aspetti, e se non succede niente, aspetti ancora un po'. È come un insetto in cima al muro. Aspetti che venga verso di te. Quando si avvicina abbastanza, lo raggiungi, lo schiacci e lo uccidi. O se ti piace il suo aspetto ne fai un animale domestico.”

La frase è tanto famosa forse proprio perché racconta meglio di altre l'atteggiamento forse brutalmente vitalista che aveva con la scrittura. Il tempo lo ha reso un mito per molti,  un incompreso per pochi.

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